Diciamo che Venezia da molti anni non conosceva una tale eccitazione a causa del-l’arte: negli stessi giorni in cui in Laguna si apre la 53esima Biennale d’arte, François Pinault, il magnate francese proprietario già di Palazzo Grassi, presenta con gran sfoggio di mezzi la sua seconda sede museale veneziana, Punta della Dogana, dove espone altri pezzi della sua vasta collezione d’arte contemporanea. Qualche giorno fa, inoltre, alla Fondazione Peggy Guggenheim si è inaugurata la mostra dedicata a Robert Rauschenberg e molti altri eventi 'collaterali' si apriranno di qui a domenica, c’è chi ne ha contati addirittura un centinaio. Tanto daffare è un sintomo di buona salute dell’arte contemporanea, oppure è tutta scena per una realtà che a molti appare invece asfittica? Bisogna prendere atto di una svolta che si è verificata dopo il 2000: la vita, i sui contenuti, la sua visibilità e comunicazione, tanti artisti analitici, gente che dà alla realtà un colore dominante, mentre sono pochi quelli che sanno toccare la realtà lasciandola intatta nel suo volto «indefinibile e misterioso». Questa atmosfera si ritrova nel padiglione spagnolo interamente dedicato a Miquel Barcelo, in quello olandese con videoinstallazioni di Fiona Tan (che pare abbia detto «io cerco qualcosa che è già presente»), nei video del canadese Mark Lewis, dove la luce ritesse magicamente ciò che potrebbe facilmente prestarsi alla retorica del quotidiano; irrisolto e deludente nell’insieme quello americano con una personale di Bruce Nauman, uno dei più importanti artisti viventi, che qui rasenta il decorativismo; pruriginoso e sociologico quello scandinavo; nell’ordine di un tradizionalismo che ha quasi valenze etniche quello iraniano; fieramente convinto del proprio status di nuova terra dell’oro mondiale, invece, quello degli Emirati Arabi, dove si fa sfoggio delle grandi urbanizzazioni speculative che hanno coinvolto architetti come Gehry e Nouvel. In conclusione di questa breve panoramica non può mancare un accenno al Padiglione Italia. Si è molto criticato preventivamente ciò che poteva venire dalla scelta dei due commissari nominati dal ministro Sandro Bondi, vale a dire Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, e ci si è sbilanciati in vecchie querelle su destra e sinistra. Per carità, bisognerebbe che qualcuno potesse dire onestamente che nel resto della Biennale si trovi qualcosa che sia davvero di sinistra, a parte i proclami dei singoli artisti e la sicumera che sempre accompagna una certa parte del sistema dell’arte. Il sindaco Cacciari pare essersi a tal punto irritato da ispirare una contromostra che si inaugurerà a Ca’ Pesaro. Cose da strapaese, se non fossimo in mezzo ai signori dell’arte che conta nel mondo. Detto questo, la scelta dei due curatori del Padiglione italiano non dimostra di avere un criterio forte, non compone uno scenario che sia davvero competitivo rispetto all’arte che domina il sistema, è privo, in sostanza, di un chiaro pensiero critico e di scelte coraggiose: ci sono, in pratica, molti degli artisti che i due critici hanno già sostenuto anche fuori dalla Biennale, e non si tratta solo di opinabilità delle scelte, qui ci si chiede quale criterio di qualità difendano o cerchino Beatrice e Buscaroli. Nonostante queste riserve sostanziali, al Padiglione Italia vi sono alcune opere che escono dall’uniformità stucchevole di questa Biennale organizzata da Daniel Birnbaum: l’opera di Silvio Wolf, l’installazione con lightboxes di Giacomo Costa e la surreale parete di cassette di pronto soccorso con sculture in ceramica di Bertozzi & Casoni. In definitiva, sia al Padiglione Italia quanto nel resto della Biennale vanno in scena due facce del medesimo conformismo: quello che coltiva 'l’oggetto strano' invece che sfidare il pensiero unico di oggi che riduce la realtà a gioco virtuale e spettacolare. Che sia, questa, la vendetta postuma di «Sua Eccellenza FTM», che quest’anno festeggia il centenario della sua più ambiziosa creatura?