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Narrativa. Ferruccio Parazzoli a 89 anni interroga l'«età selvaggia»

Alessandro Zaccuri mercoledì 28 agosto 2024

Lo scrittore Ferruccio Parazzoli

Com’era la storia delle pentole e dei coperchi? Che il diavolo non ne combina una giusta, perché il male è per sua natura difettivo, pasticcione, irrisolto. Ma se, al contrario, l’astuzia di Satana consistesse proprio in questa deliberata incompletezza? Niente arriva mai a termine, tutto è continuamente rimesso in discussione, come se la realtà non riuscisse a restare consistente. Come se ci fosse sempre un’esplosione in agguato, magari dissimulata dall’inesorabile lentezza dell’entropia. È quello che accade in “Ultima cena”, uno dei racconti compresi in Tutte le luci accese (Bompiani, pagine 560, euro 22,00), in libreria da oggi, il corposo volume che raccoglie la produzione “in forma breve” di Ferruccio Parazzoli.

Sulla brevità della forma, in effetti, occorre intendersi, e non soltanto perché, a fianco di storie che si condensano in dieci pagine o giù di lì, si incontrano novelle molto più estese, che lasciano presupporre una dimensione romanzesca. Da un romanzo del 2007, Quanto so di Anna, proviene per esempio uno dei brani più esilaranti e crudeli, “Pizza al trancio”, che è nel medesimo tempo un’analisi del mondo editoriale, un lamento per Milano e una parodia dell’ossessione per il cibo, tema ricorrente nell’opera di Parazzoli come ricorrenti sono i nomi propri, le ambientazioni (oltre a Milano, scandagliata nel labirinto di piazzale Loreto e dintorni, andrà segnalata almeno Macerata, dove l’autore ha vissuto da ragazzo) e più che altro le situazioni, spesso improntate a quella che l’Eliot di Assassinio nella cattedrale avrebbe definito la «quieta disperazione» di chi si limita a sopravvivere.

Molti dei protagonisti di Tutte le luci accese sono uomini anziani, giunti senza troppo entusiasmo al traguardo simbolico degli ottant’anni e improvvisamente distaccati da tutto, fosse pure dal “Premio Nobel” che offre lo spunto per un altro racconto. In scena c’è uno scrittore in età avanzata, ormai abituato a una rispettabilità letteraria priva di rilevanza commerciale e bruscamente raggiunto dalla notizia di essere lui, proprio lui, il vincitore designato dall’Accademia di Svezia. Anziché rallegrarsi, si cruccia per gli incomodi del viaggio e, di nuovo, per l’imprevedibile qualità delle pietanze che gli verranno servite. Non diversamente, anziché mettere in bella il discorso che dovrà pronunciare a Stoccolma, se ne rigira nella testa l’argomento: un elogio dello «spazio bianco», inteso come l’impercettibile intervallo che, frapponendosi tra una lettera e l’altra, rende possibile la scrittura e, di conseguenza, la lettura.

Invenzione vertiginosa, non fosse che nei mesi scorsi un saggio sullo spazio bianco Parazzoli lo ha veramente pubblicato (Apologia del naufragio, il Saggiatore), ma non per questo si è autorizzati a credere che il personaggio del “Premio Nobel” sia una creatura pienamente autobiografica. Per estensione, non è neppure lecito sostenere che Tutte le luci accese sia una nuova edizione di Elefanti bianchi, uscito sempre dal Saggiatore un paio di anni fa con un’importante prefazione di Helena Janeczek. Già allora Parazzoli si era preoccupato di ordinare secondo un criterio personale una serie di materiali tendenzialmente – ma non esclusivamente – contraddistinti da una brevità talvolta frammentaria.

Se allora l’obiettivo era appunto quello di rendere omaggio alla necessaria incompiutezza della scrittura, adesso Tutte le luci accese si muove in una direzione differente, più complementare che alternativa. I testi possono anche essere gli stessi (da segnalare, tra gli altri, il cruciale “A un bambino sconosciuto”), originale e non di rado sorprendente risulta tuttavia l’equilibrio che scaturisce dalla struttura attuale. La consapevolezza del non finito rimane, anche nelle sue implicazioni programmatiche, però si fa strada l’eventualità di una trama unica, o almeno unitaria, all’interno della quale i vari racconti vengono ad assumere un significato ulteriore.

Con i suoi 89 anni compiuti da pochi giorni, Parazzoli si conferma dunque come il miglior testimone di quella «età selvaggia» sotto la quale si pone una delle sezioni in cui il libro è scandito. Si tratta della vecchiaia, che l’autore si compiace di chiamare così, astenendosi da ogni eventuale abbellimento. Il tempo in cui tutto è quasi consumato e da perdere non resta quasi nulla, se non la coerenza con sé stessi. Non si smette di cercare, e anzi lo si fa con più insistenza, nonostante il sospetto che, alla fine, le domande più urgenti restino senza risposta.

A volte, come accade nel gustoso “Nolo. Uno stupido racconto”, il lieto fine si manifesta dove meno te lo aspetti, in altri casi ciò che non è stato rimane sospeso e incombente (indicativo, in questo, il racconto da cui deriva il titolo dell’intera raccolta). Narratore esperto, Parazzoli è maestro di una prosa asciutta, ridotta all’essenziale anche quando sceglie di assumere un ritmo ossessivo e ricorsivo. Un autentico pezzo di bravura sono, nello specifico, le istantanee radunate nella sequenza di “Go marching in”, un racconto suddiviso in tanti altri racconti, come a rappresentare in sintesi l’immaginario di Parazzoli. E le pentole? E i coperchi? Meglio tornare alla considerazione di partenza, meglio lasciarsi travolgere dalla sarabanda di “Ultima cena”.

Più ancora dell’impegnativo “Vatican Blues” (anch’esso, come “Ultima cena”, già presente in Elefanti bianchi), questo è uno dei vertici della peculiare teologia narrativa perseguita dall’autore. La Passione non ha avuto luogo, Pilato si è lasciato persuadere ad assolvere il Nazareno, Barabba è finito in croce, Jehoshua gira per le strade di Gerusalemme senza che più nessuno lo segua o lo insegua. Satana, che si è fatto carico di produrre il film incentrato su questo apocrifo delirante, dovrebbe essere soddisfatto, e invece si arrovella. Perché ha bisogno di un nemico, dice lui. Ma la verità è che la Creazione intera invoca salvezza, e questo – dannazione – il diavolo lo sa meglio di chiunque altro.