Al di là dei risultati, la bellezza delle Paralimpiadi sono le storie. Come quella delle sciatrici Oksana Masters e Tatyana McFadden. Entrambe nate 24 anni fa in Unione Sovietica e abbandonate in un orfanotrofio, Oksana a Kiev, Tatyana a San Pietroburgo. Adottate da due famiglie americane, oggi sono atlete paralimpiche della nazionale a stelle e strisce. Oksana nasce nel 1989, tre anni dopo il disastro nucleare di Chernobyl in un paesino a 300km dal reattore. Le radiazioni hanno sconvolto la sua anatomia: non ha le tibie, alle mani mancano delle parti, i piedi hanno sei dita. Quando compie sette anni, riceve il regalo più bello: una famiglia, una nuova mamma la signora Masters che dal Kentucky vola per darle una vita migliore. In questi Giochi di Sochi, Oksana ha debuttato nello sci di fondo 12 km - lei che a Londra 2012 ha vinto la medaglia di bronzo nel canotaggio - e ha conquistato l’argento, prima medaglia nello sci nordico sitting americano femminile. Anche Tatyana è stata adottata all’età di sette anni, la sua nuova mamma è Debbie McFadden, membro della commissione americana della disabilità, che in visita all’orfanotrofio di San Pietroburgo vide quella bambina gracile e tristissima che non potendo camminare a causa della spina bifida, e senza una carrozzina, si spostava strisciando per terra. Tatyana McFadden oggi sta gareggiando nello sci nordico, disciplina che pratica da un anno. La sua specialità è la corsa in carrozzina olimpica: tre ori ai Giochi estivi di Londra e nel 2013 ha vinto, a distanza di una settimana, la maratona di Boston e quella di Londra. A volte la vita dà una seconda chance. Come è successo alla svedese Helena Ripa, 42 anni: a Sochi è impegnata nelle gare di sci nordico che fa grazie alla protesi che sostituisce la sua gamba destra. All’età di 14 anni, Helena ha subito l’amputazione a causa di un cancro che per dieci anni ha continuato a cercare di riatticchire nel resto del corpo. Tra una terapia e un ospedale, Helena è diventata un’ottima nuotatrice tanto da qualificarsi ai Giochi di Barcellona nel 1992. Un inno alla vita quello di Helena: parte per New York dove studia e lavora, torna in Svezia dove apre uno studio di designer e fa un’esperienza come modella per il marchio internazionale H&M. Nel 2010 il ritorno allo sport agonistico nello sci nordico vestendo la maglia della nazionale svedese. Kingsley Ward, 27 anni, in Afghanistan nel 2010, in una missione militare ha perso «un po’ di arti», come racconta. Lo scoppio di una mina gli ha portato via, infatti, l’avambraccio destro, qualche dito delle mani e le due gambe. Scia con il monosci e con una protesi al braccio dove attacca lo stabilizzatore. È entrato a far parte della nazionale del Sud Africa, per la gara di Super G: velocità pura su muri di ghiaccio. «La velocità è stata l’emozione più forte che ho vissuto il giorno in cui sono salito su di un monosci. Dopo l’incidente pensavo di non poterla più sentire. Le protesi mi facevano camminare ma la mia vita era al rallentatore», dice. Non solo. «Il monosci mi ha rifatto sentire libero: potevo finalmente andare dove volevo su quella montagna». E ancora: «Ho sempre vissuto svolgendo i compiti del mio lavoro. Con Sochi sono tornato ad avere un obiettivo». Storie da raccontare anche quelle di atleti che con i Giochi di Sochi hanno scritto la storia sportiva del loro Paese. Per la prima volta il Brasile partecipa alle Olimpiadi invernali grazie a Andre Cintra Pereira, nello snowboard, e a Fernando Aranha, nello sci di fondo. Aranha, 36 anni, oggi è uno dei più importanti atleti di triatlhon paralimpico, ma la sua storia parte dalla periferia di San Paolo. All’età di quattro anni si ammala di poliomielite, il suo destino pare avere un solo indirizzo quello dell’orfanotrofio. Aranha ha un altro progetto di vita. Il suo cognome significa ragno - lui stesso ci scherza - e come l’insetto comincia a tessere una rete che gli permette all’età di 16 anni di lasciare l’orfanotrofio per andare a giocare nell’unica squadra di basket paralimpico della città: Ibirapuera Park Sao Paulo. Da quel momento riesce a provare più sport, fra cui handbike e sci di fondo, allargando la sua tela sino agli Stati Uniti dove è volato qualche mese fa riuscendo a farsi allenare dal mitico coach del team Usa, Mark Abbot. Aranha, come atleta ai Giochi vuole portare a casa risultati, in cuor suo, però, sa di avere già lanciato un altro importante filo, di avere contribuito a scrivere una nuova pagina dello sport del Brasile, Paese che nel 2016 ospiterà la sua prima Paralimpiade.