Storia. Paolo VI nella stampa italiana: dalla contestazione al ripensamento
Si dice che la satira aiuti a comprendere meglio lo spirito di un tempo e anche i suoi protagonisti. Ma in relazione a Paolo VI l’affermazione è solo parzialmente vera. Magari riguardo allo spirito del tempo sì, ma per la sua immensa personalità niente affatto. È quello che in fondo documenta l’agile e interessante volumetto intitolato Paolo VI, l’estasi e il terrore, a cura di padre Leonardo Sapienza, uscito di recente per i tipi delle Edizioni Viverein, che al Papa ormai santo (il 14 ottobre la canonizzazione) sta dedicando una serie di originali ritratti.
La pubblicazione raccoglie infatti un saggio di Luigi Accattoli, vaticanista prima di Repubblica e poi del Corriere della Sera e alcune delle numerose vignette che Giorgio Forattini dedicò al Pontefice bresciano. In una delle più feroci, apparsa su Repubblica l’8 giugno 1978, appena due mesi prima della morte del Pontefice, il vignettista lo ritrae “incinto” e soddisfatto, a dileggio della sua posizione sull’aborto, come ad affermare la sua invincibile contrarietà ai sentimenti e agli orientamenti del Paese. Tra l’altro proprio mentre l’affare Moro aveva segnato un riavvicinamento tra il Papa e il sentire comune.
Ma ve ne sono anche altre a proposito della pillola (Paolo VI è nelle vesti di un farmacista che vende a una donna una “pillola” che in realtà è un’ostia) e sulla supposta vicinanza del Papa al Pci, come quella dell’8 dicembre 1977, in cui si vede un Montini che sale con la scala dei vigili del fuoco verso la statua della Madonna di piazza di Spagna. La Vergine però ha le sembianze dell’allora segretario comunista Enrico Berlinguer. Senza contare le beffe che di lui si faceva in tivù Dario Fo.
Come si vede, niente di più lontano dal vero Paolo VI (le distanze tra “Papi reali” e “Papi percepiti” sono sempre notevoli e ce ne siamo accorti ad esempio anche in relazione a Benedetto XVI). E proprio in questo sforzo di documentazione il volumetto ha il suo punto di forza. Scrive padre Sapienza nell’introduzione: «È un fenomeno paradossale: il Papa di gran lunga più vicino alla cultura moderna era fatto oggetto di irrisione». E Accattoli, descrivendo «la figura di Paolo VI nell’opinione pubblica italiana», annota: «Il Papa che più aveva rinunciato all’uso dei metodi autoritari o delle condanne, risultava il più contestato».
Proprio il saggio di Accattoli (che Sapienza condisce di ulteriori contributi, come un intervento dell’allora cardinale Albino Luciani, colui che sarebbe stato il suo immediato successore con il nome di Giovanni Paolo I) aiuta a ricostruire - con dovizia di citazioni - come fu visto il Papa durante i suoi 15 anni di pontificato.
Il vaticanista distingue tre periodi. Il primo va dall’elezione (avvenuta il 21 giugno 1963) al 1967 e che si caratterizza come una «stagione di adesione corale della cattolicità italiana al pontificato», mentre c’è da parte degli ambienti laici «una rispettosa attesa». Il secondo, invece è il più lungo tormentato e come fa notare Accattoli va dal 1967-68 fino alla vigilia della morte, quando la vicenda Moro disvela all’opinione pubblica italiana e mondiale la profondità di sentimenti e di spiritualità di un Papa altrimenti definito algido e “mesto”. «In Italia – scrive l’autore – c’è chi individua il punto di rottura dell’«equilibrio del pontificato paolino» e, quindi anche della sua immagine nell’opinione pubblica, nella fine del rapporto di fiducia tra Montini e il cardinale Lercaro, interprete delle posizioni innovatrici e dell’ala marciante dello schieramento “conciliare”».
Ma più in generale ciò che mette fine all’idillio sono le encicliche Sacerdotalis coelibatus (1967) e Humanae vitae (1968) che, annota ancora Accattoli, sono percepite come «esempi di intervento frenante del Pontefice» sollevando «riserve e proteste». Al punto che per lunghi anni «Paolo VI vivrà la condizione storicamente nuova, benché verosimilmente destinata a farsi comune per tutti i suoi successori, di un Pontefice contestato anche all’interno della Chiesa».
Notevole è da questo punto di vista quanto scrisse Arturo Carlo Jemolo su "Famiglia Cristiana" del 26 giugno 1967, prendendo la parola in difesa del protagonista di «uno dei pontificati più dolorosi che la storia ricorda». E in effetti, per sottolineare il cambio di clima, basta mettere a confronto questi due scritti. Il primo è di Giovanni Spadolini, che sul Corriere vede nel nuovo Papa, subito dopo l’elezione, «l’uomo giusto per sintetizzare e quasi contemperare nella sua persona le due eredità che una propaganda tendenziosa e interessata tende spesso a contrapporre: l’eredità di papa Pacelli e l’eredità di papa Roncalli». Il secondo di Giuseppe Alberigo, sempre sul Corriere della sera, che il 25 settembre 1977 si sofferma sul rapporto tra il Papa e il Concilio. «Rispetto ad esso appaiono dominanti due attitudini: un impegno sincero di attuazione fedele, incessantemente riaffermata, e una prassi incredibilmente oscillante, timida, contraddittoria, la cui immagine globale risulta sempre più incerta tra un’attuazione creativa e una debolezza che lascia spazio ad una restaurazione strisciante».
Tuttavia l’atteggiamento di Paolo VI non cambiò mai. Egli, ricorda padre Sapienza, «pur soffrendone, continuava a pensare che “spesso l’utilità di un dialogo sta nell’ascoltare, nel chiedere. L’amore fa questo: ascolta, chiede; questo gli basta”». La ricerca del dialogo arriva agli estremi confini quando Montini, durante il rapimento di Aldo Moro, si rivolge persino agli «uomini delle Brigate Rosse». Fa notare Accattoli nel suo saggio: «La figura dolente del Pontefice lascia una traccia nel sentimento collettivo. Le parole bibliche pronunciate per il rapimento e l’uccisione di Moro funzionano da elemento rivelatore: per la prima volta l’intero Paese sembra sentirsi interpretato dal vecchio Pontefice. Che muore tre mesi più tardi. Quasi unanime, la stampa d’opinione lo definisce “grande”». Per il nobel Eugenio Montale (Corriere della Sera), Paolo VI seppe «tenere unita la Chiesa in un mondo dilaniato». E valga per tutti a questo proposito quanto scrisse Eugenio Scalfari su Repubblica dell’8 agosto 1978, due giorni dopo la morte: «Lascia una Chiesa più sicura di sé in un mondo che ha visto invece la propria crisi aggravarsi ed estendersi. Noi laici dobbiamo qui dirlo: la società religiosa si è in questi anni assai meno imbarbarita della società laica».
Si noti che Repubblica è lo stesso quotidiano sul quale uscivano le vignette di Forattini. Contraddizione? Incoerenza? Pressapochismo? Forse più semplicemente la prova che una personalità così grande, una spiritualità così profonda, una santità ora così acclarata non si possono esaminare con gli occhiali miopi della contemporaneità, ma meritano di essere pensate e ripensate sotto ben altre categorie.