«Sulla maglietta, come tutti i partecipanti, assieme al numero di gara c’era il mio nome di battesimo, Paolo, e quando la gente mi incitava, pur non conoscendo me né la mia storia, l’adrenalina saliva e ho tagliato il traguardo sorridente, nonostante la fatica. È stato splendido, quello che sognavo da sempre: da bambino, poi da ragazzo e quindi da adulto, il mio obiettivo è sempre stato quello di tornare a casa stanco per il tanto lavoro o per il tanto sport. Perché per troppi anni sono arrivato a sera stanco a causa della malattia». Prima vuol dire undici anni fa, era il 2005 e Paolo, il protagonista del racconto, è Paolo Castelfranato, trentanovenne, abruzzese di Lanciano ora residente a Mirandola, nel Modenese. La maglietta con numero e nome, e il traguardo di cui sopra, sono quelli dell’Ironman 70.3, disputatosi a giugno a Pescara: 70.3 come le miglia percorse in totale dagli atleti, che tradotte in chilometri diventano 1,9 a nuoto, 90 in bicicletta e 21,097 di corsa. Un triathlon massacrante che trova sempre più adepti, al quale ha preso parte appunto anche Paolo il quale, però, ha una particolarità: sino a undici anni fa aveva un rene solo, peraltro malato, e già correre per lui era rischioso. Oggi è il secondo trapiantato al mondo - unico italiano - ad avere concluso un Ironman. La sua è una storia in qualche modo esemplare. Paolo che visse due volte conta gli anni dal giorno del trapianto, effettuato dall’equipe del professor Famulari presso il Centro nazionale trapianti dell’Aquila: «Per chi ci è passato, è come una rinascita. È complesso, ma a me è andato perfettamente e i valori sono diventati quelli di una persona sana, io che non lo ero mai stato. Per anni non potevo correre, bere mi era quasi vietato anche in estate e, quando la malattia è diventata più aggressiva, facevo 16 ore di dialisi la settimana. Ho anche avuto paura. Poi è arrivata quella telefonata: c’era un donatore compatibile». Quel giorno, per Paolo comincia un’altra vita. L’operazione, la convalescenza, l’orizzonte che cambia. E una promessa, perché chiunque abbia ricevuto un organo ha una specie di debito di riconoscenza nei confronti di chi non è stato altrettanto fortunato. Alla base di tutto, purtroppo, c’è sempre un dramma. «Ci sono tante cose da vivere e volevo essere normale tra le persone normali. Lo dovevo a me, lo dovevo a Luigi, il ragazzo che mi ha donato il rene e che non c’è più. Lì è scattata la molla, dovevo, anzi dovevamo, riprenderci ciò che ci era stato negato: così, nel tempo, con Luigi ho scalato il Gran Sasso, ho terminato maratone, con lui ho concluso l’Ironman. Lo toccavo, toccandomi nel luogo in cui ho il rene. È un’esperienza molto forte». La famiglia di Luigi, con Paolo è in contatto. Sa dell’Ironman, e ha gioito insieme a lui per quella che Paolo chiama «la nostra medaglia». Guida le ambulanze, Paolo Castelfranato, il suo lavoro è spesso fondamentale per salvare vite, ama farlo. È restituire ciò che ha avuto, è ciò che si diceva in precedenza: arrivare alla sera stanchi, di lavoro (e per questo, per viverlo completamente, ha rinunciato all’invalidità) o di sport. «Penso alla storia del rugbista sudafricano Jonah Lomu, un’ispirazione per me come per tanti, uno dei simboli di ciò che significa non arrendersi». Riscoprire insomma quanto la normalità sia straordinaria. Ecco perché quella di Paolo che visse due volte è una storia che merita di essere raccontata. Una volontà ferrea. Per sé stesso, per gli altri. E anche per chi, da lassù, tifa per lui.