Agorà

Giornalismo. Pansa, quella visione controcorrente

Agostino Giovagnoli martedì 14 gennaio 2020

Giampaolo Pansa è stato indubbiamente un grande giornalista. Fu lui a raccogliere l’intervista in cui Berlinguer dichiarò di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia. Ma di Pansa si ricorda oggi soprattutto la battaglia politico-culturale, di cui il volume Il Sangue dei vinti del 2003 ha costituito una sorta di manifesto.

È stata una battaglia “revisionistica” nei confronti della narrazione resistenziale che rovesciava l’approccio antifascista. Il Sangue dei vinti raccontava infatti numerosi atti di violenza, processi “popolari”, omicidi impuniti e persino stragi compiuti dai partigiani, soprattutto dopo il 25 aprile 1945 quando finì la guerra di Liberazione. Quando ne scrisse Pansa non si trattava di episodi sconosciuti. La memoria di quelle vicende era sempre rimasta viva nelle zone dove si erano compiute, specialmente il «triangolo della morte», area del modenese dove tra il 1945 e il 1949, anche se sempre negati dal Partito comunista, molti omicidi politici vennero compiuti da ex-partigiani. Nel 1956 fu condannato per omicidio un deputato di questo partito, Moranino, accusato invece dell’assassinio nel biellese, durante la Resistenza, di cinque partigiani e di due loro compagne colpevoli solo di non essere comunisti. Tutto questo non è stato ignorato dagli storici.

Pietro Scoppola, ad esempio, ne scrisse in un suo libro del 1980, sottolineando l’appartenenza al Pci di molti di coloro che erano stati denunciati alla magistratura per i delitti del «triangolo della morte». Quando pubblicò Il sangue dei vinti, dunque, Pansa non svelò tutto questo per la prima volta. Ma nei primi anni del nuovo secolo il clima politico-culturale in Italia era molto cambiato e Pansa si inserì agevolmente in una polemica contro l’antifascismo che aveva ormai fatto molta strada. Quello di Pansa non era un libro di storia. Mancavano i basilari rinvii alla documentazione, il confronto incrociato delle fonti, l’analisi critica della pubblicistica, oltre che una elementare conoscenza del dibattito storiografico. Il sangue dei vinti era, insieme, cronaca e romanzo e le pagine più importanti del libro sono quelle finali in cui la protagonista, un personaggio di fantasia, confessa il suo peso segreto: il dubbio angoscioso che il padre comunista abbia ucciso, senza motivo, alcuni fascisti a guerra finita. Il libro – che ebbe uno straordinario successo – gettò un’ombra di generale discredito su tutto quello che era successo tra l’8 settembre e il 25 aprile. Giampaolo Pansa è diventato così una figura di punta di quel movimento anti-antifascista che ha segnato in profondità il clima culturale della Seconda Repubblica, geneticamente refrattaria a riconoscere nel rifiuto del fascismo un tratto costitutivo della democrazia. È stata una battaglia sostanzialmente vittoriosa: l’antifascismo ne è uscito complessivamente delegittimato.

Oggi, la scomparsa di Pansa, costituisce un’occasione per riflettere sul senso e sugli effetti della lunga campagna politico-culturale di cui è stato uno dei protagonisti. L’antifascismo politico ha avuto indubbiamente molte colpe e la prima di queste è stata proprio la rimozione delle responsabilità degli antifascisti, in particolare in atti di violenza che nulla avevano a che fare con la lotta antifascista, come gli assassini di partigiani di altro orientamento ideologico e di fascisti uccisi per vendetta quando il fascismo era già finito. È stato dunque legittimo denunciare tali colpe e responsabilità, come pure la loro rimozione operata dai comunisti. Non altrettanto si può dire sulla complessiva delegittimazione dell’antifascismo che ne è venuta.

Alla purificazione della memoria avrebbe dovuto seguire l’affermazione di un altro antifascismo, liberato da silenzi inaccettabili sotto il profilo morale e da una parzialità politica deformante. Sarebbe stato ad esempio necessario ricordare che la Resistenza non è stata solo opera dei comunisti o della sola sinistra e rilanciare la molteplicità di apporti che l’hanno ispirata, per enfatizzare il ricco pluralismo morale, ideale e politico su cui si è fondata la nostra democrazia. Ma la battaglia anti- antifascista ha avuto una forte matrice anticomunista, scarsamente interessata a difendere antifascismo e democrazia e concentrata sul nemico comunista, con l’effetto paradossale di ingigantirne l’importanza seppure in negativo.

E ha finito per spingere verso una liquidazione complessiva di tutto l’antifascismo. Tale liquidazione ci ha lasciato tutti più deboli e indifesi: è come se avessimo smesso di vaccinarci contro una malattia pericolosa. Il fascismo, infatti, non è oggi un problema lontano e in definitiva irrilevante, anche se molti negano la sua esistenza o ne contestano la pericolosità. La strage di settantadue giovani a Utøya, in Norvegia, compiuta da Anders Breivick nel 2011 e quella di cinquanta immigrati musulmani realizzata da Brenton Tarrant del 2019 in Nuova Zelanda hanno avuto esplicite matrici fasciste.

I neonazisti tedeschi hanno compiuto 700 gesti di violenza nel solo 2019 e in Italia negli ultimi anni sono state numerose le aggressioni rivendicate da fascisti; negli Stati Uniti sono cresciuti in modo esponenziale gli assassini di massa ad opera di suprematisti bianchi e per la prima volta estremisti di destra hanno assaltato sinagoghe o aggredito rabbini, mentre in Europa orientale fascismo e antisemitismo rappresentano oggi tendenze diffuse. Indubbiamente, il fascismo attuale è diverso da quello di ieri, è per certi versi un fascismo 2.0, che corre sul web e si configura come una confusa galassia di gruppi e individui, non come un grande partito di massa quale è stato il Partito Nazionale Fascista. Ma proprio questa natura molecolare e diffusa lo rende particolarmente pericoloso: prima ancora di essere un movimento politico è, infatti, una mentalità largamente accettata. Il fascismo di oggi ha in comune con quello storico l’aspetto più inquietante: l’esaltazione della violenza come arma identitaria. Come quello del XX secolo, anche il fascismo di oggi predica la contrapposizione tra “noi” e “loro”, “italiani” e “stranieri”, “bianchi” e “neri”, “cristiani” e “musulmani” e pretende di realizzare l’unità del popolo (“noi”) in una contrapposizione al nemico (“loro”) fondata sull’odio e aperta alla violenza. Oggi non c’è più un cordone sanitario come quello rappresentato dall’antifascismo e il virus del fascismo si diffonde in modo anonimo anche in aree che pretendono di esserne completamente estranee. È indicativa in questo senso la sorprendente distanza affermata da tanti in Italia nei confronti di una sopravvissuta della Shoah, Liliana Segre, e della sua iniziativa parlamentare per contrastare antisemitismo e razzismo: non sarebbe successo se fosse stata ancora riconosciuta la validità dell’antifascismo. Con ogni probabilità, Giampaolo Pansa non avrebbe voluto tutto questo. Ma, forse senza rendersene conto, ha contribuito indirettamente ad abbandonare i nostri anticorpi contro questa forma di odio.