La ricerca. Pandemia e diritti umani: gli effetti a lungo termine del Covid
Piazza Duomo a Milano durante il lockdown del marzo 2020
Nell’agosto del 1943, tornando a collaborare con il 'Corriere della Sera' dopo la caduta di Mussolini, Luigi Einaudì aprì un suo articolo con un eloquente heri dicebamus. Per l’economista torinese, incominciare richiamando ciò che «ieri stavamo dicendo», significava soprattutto rivendicare la coerenza con le posizioni sostenute prima della lunga parentesi della dittatura. Quando Benedetto Croce, qualche tempo dopo, riprese la medesima allocuzione, anche il suo intento era celebrare la fine dell’«invasione degli Hyksos» che aveva precipitato l’Italia nella barbarie. Ma molti lessero in quella formula un atteggiamento liquidatorio, che tendeva a considerare il fascismo come una parentesi priva di significative connessioni con la storia italiana. Quell’heri dicebamus sembrava cioè un modo per dimenticare il ventennio fascista, evitando di chiedersi se la dittatura non avesse avuto radici nelle vicende istituzionali e nella stessa cultura del Paese.
Quando ci saremo lasciati alle spalle la pandemia, sarà forte la tentazione di pronunciare all’unisono una sorta di collettivo heri dicebamus, se non altro per la soddisfazione di poterci sbarazzare di tutte quelle limitazioni che ci hanno accompagnato. Ma sarebbe pericoloso arrivare a considerare l’emergenza sanitaria come una sorta di parentesi da dimenticare. Non solo perché lo shock degli ultimi anni modificherà l’agenda degli Stati e il repertorio dei loro strumenti operativi. Ma soprattutto perché molto probabilmente lascerà tracce profonde nelle nostre società.
Un invito a fare i conti con la lezione della pandemia giunge per esempio dal volume Pandemia e diritti umani, curato da Michele Nicoletti e Marianna Lunardini (Donzelli, pagine 246, euro 28.00), che propone i risultati di un’indagine svolta dal Centro Studi di Politica Internazionale. Al centro dello sguardo dei ricercatori sono in particolare le conseguenze che l’emergenza e la sua gestione politica hanno comportato sul rispetto dei diritti umani, intesi nel loro insieme ma anche nella loro connessione.
La diffusione del virus ha sfidato innanzitutto il diritto alla vita e a una morte dignitosa. E naturalmente la necessità di conte- nere i contagi ha provocato a vari livelli una contrazione delle libertà personali, colpendo spesso in modo rilevante i gruppi di popolazione più vulnerabili. Una prima lezione da non dimenticare, segnala in particolare Nicoletti, riguarda l’unità e l’indivisibilità dei diritti umani, enunciate già nella Dichiarazione universale del 1948 e più volte ribadite dall’Onu. Benché per esempio il diritto alla salute possa entrare in conflitto con il diritto di associazione, deve essere chiaro che i diritti sono in realtà indivisibili perché la lesione di alcuni di essi – per esempio, essere senza casa, senza lavoro o senza scuola – non incide solo su una parte limitata dell’esperienza individuale, ma ha conseguenze sull’interezza della persona.Dunque, non è sufficiente garantire la non interferenza tra diritti e può essere necessario un intervento attivo a sostegno dei gruppi più vulnerabili.
La seconda lezione, secondo Nicoletti, riguarda inoltre l’aggravamento delle diseguaglianze, con implicazioni anche in termini di accesso alle cure sanitarie. Un ulteriore aspetto concerne infine la legislazione di emergenza che, soprattutto in alcuni paesi, ha contribuito a una significativa limitazione delle libertà e a una sospensione delle garanzie degli Stati di diritto. E proprio questo insieme di dinamiche suggerisce l’opportunità di istituire anche in Italia un’autorità indipendente di tutela dei diritti umani.
Anche Laura Palazzani in Bioetica e pandemia. Dilemmi e lezioni da dimenticare (Scholé, pagine 202, euro 20.00) riflette sull’esperienza dell’emergenza sanitaria, soffermandosi in particolare sulla necessità di una riflessione su alcuni valori fondamentali: la solidarietà, come base per la cooperazione tra individui e istituzioni; la necessità e la proporzionalità degli strumenti operativi; l’efficacia delle azioni; la trasparenza delle procedure; l’equità rispetto all’insieme della popolazione.
Palazzani ricostruisce la discussione condotta nell’arco di quasi due anni in campo bioetico, mettendo in luce i principali nodi su cui si è concentrata l’attenzione degli studiosi. Ma anche ai suoi occhi la pandemia non può essere archiviata in modo semplicistico. Innanzitutto, l’emergenza ha dimostrato la sostanziale impreparazione di tutti i grandi Stati occidentali e l’inadeguatezza dei piani predisposti. «Questa pandemia ci costringe a prendere atto che, di fronte a sfide di questa portata, dobbiamo metterci 'al sicuro'». Ciò significa che è necessario investire in strutture, personale ed educazione dei cittadini, pur nella speranza che nuove emergenze non si presentino nel prossimo futuro. Ma è anche indispensabile rivedere l’organizzazione (correggendo i limiti di un 'ospedalo- centrismo'). E, infine, deve essere rafforzato quel coordinamento a più livelli (nazionale, regionale e globale) che è in gran parte mancato.
Le mancanze in termini di preparazione, organizzazione e coordinamento sono state in effetti all’origine della carenza di risorse per la cura delle persone malate. Ed è emerso in modo chiaro che risposte efficaci non possono giungere dai singoli paesi. «Non è sufficiente concentrarsi sul raggiungimento di ciò che è meglio in termini etici a livello locale, ma è necessario sempre alzare lo sguardo nell’ottica della solidarietà tra le nazioni e tra i popoli », scrive infatti Palazzani. Non si tratta certo di obiettivi facili da raggiungere, a causa di ostacoli vecchi e nuovi. Ma la portata dell’emergenza che abbiamo vissuto ci ha mostrato il mondo – forse per la prima volta – in una prospettiva 'globale', dinanzi alla quale sono davvero indispensabili nuove strategie. E anche per questo non potremo archiviare la pandemia con una sorta di semplicistico heri dicebamus.