Agorà

Intervista. Paola Pallottino, 80 anni tra disegni e Lucio Dalla

Massimo Iondini martedì 9 aprile 2019

Paola Pallottino e nel riflesso la figlia Silvia autrice della foto

Una vita e una carriera multiformi. Come le sue amate illustrazioni, come i testi delle sue canzoni. Così nuovi, metaforici, diversi da quelli che imperavano in quei primi anni Settanta. Tanto da farle vincere a Sanremo la targa per il miglior testo, dopo essere stata ripescata e poi mutilata dalla censura per quel suo Gesubambino costretto a diventare una data, 4/3/1943, la più famosa della canzone italiana. Sui giornali di quella fine febbraio 1971 gli osanna dei critici musicali erano infatti tutti per questa giovane illustratrice di libri per ragazzi, madre di famiglia all’esordio come paroliera, che aveva messo le ali alla «stornellata del sor Capanna» (come scrisse più d’uno, con il solito snobismo) di Lucio Dalla. Brano musicalmente invece anche elegante, ancor più ingentilito dal refrain del violino di Renzo Fontanella, ma diventato il vincitore morale del Festival proprio grazie a quel testo così rivoluzionario, suggestivo e poetico sopravvissuto alla censura della Rai e della Rca. Fu così che sbucò dal nulla il nome di Paola Pallottino, romana trapiantata a Bologna, per alcuni anni felicemente a braccetto con quello di Dalla, formando una coppia tanto anomala quanto inventiva, capace di sfornare altri successi come Un uomo come me, Il gigante e la bambina e Anna Bellanna.

La sua dimora a Bologna è in pieno centro, non molto lontana dalla “Casa museo” di Lucio. Ma anche quella di Paola è un potenziale museo, il Museo dell’illustrazione che giace però da quasi tre lustri nella sua cantina, a pochi gradini dal suo studio, fucina creativa in cui troneggiano scaffali ricolmi di volumi, tavoli da lavoro e cataste di libri di ogni sorta. Festeggerà qui, quest’oggi, il suo ottantesimo compleanno. Un dì di festa che, del resto, si rinnova per lei ogni santo giorno, grazie al sacro furore della sua indomabile passione. Come è ben raccontato nel bellissimo documentario del 2013 La passione di Paola, realizzato con il contributo di suo figlio Michele.

Professoressa Pallottino, e se oggi le arrivasse una telefonata per dirle che il suo Museo dell’illustrazione troverà di nuovo un posto al sole?

Festeggerei con gioia e sollievo. Il materiale del Mil (riviste, bozzetti, manifesti, tavole originali, libri, locandine, spartiti, ecc.) è perfettamente racchiuso e conservato nella mia cantina dal 2005, l’anno in cui morì mio marito Stefano Pompei. E tanto di questo materiale è tra l’altro proprio opera di suo padre, il grande scenografo e illustratore romano Mario Pompei. Ma purtroppo tutto questo patrimonio giace ora in scatoloni, dando lavoro a due potenti deumidificatori. A sfrattarmi fu unilateralmente il Comune di Ferrara, dopo tredici anni di mia direzione.

Ma in tutto questo tempo nessuno si è mai fatto vivo?

Nel 2013 iniziarono contatti con la direzione della Biblioteca Tartarotti di Rovereto, in vista di una possibile inaugurazione del Museo l’anno successivo, in coincidenza con i 250 anni di vita della Biblioteca. Era stata perfino individuata una sede e la possibile direzione da affidare a un giovane studioso locale. Per due anni sono andata su e giù, facendo conferenze, eccetera, ma poi la cosa svaporò senza spiegazioni. Mi consolo con alcune tesi di laurea che sono state fatte sul Museo, l’ultima due anni fa da una mia ex studentessa a Urbino, Chiara Cesaretti.

E alla dotta Bologna, la sua città di adozione, non interesserebbe, vista anche la presenza del Dams e della Fiera del libro per ragazzi?

Lasciamo perdere, qui sono del tutto ignorata, dimenticata. Pensi che non venni nemmeno invitata ai funerali di Lucio sette anni fa e men che mai all’inaugurazione della sua casa in via D’Azeglio. Naturalmente a invitarmi nella sua bellissima casa, così artistica e raffinata, fu più volte Lucio. E questo è ciò che conta.

A gennaio ha dato vita a un sito dedicato a suo padre, Massimo Pallottino, il fondatore della moderna etruscologia...

Sì, una gioia immensa. Un progetto al quale tenevo molto, perché volevo celebrare mio padre e il suo genio nel 110° anniversario della nascita, avvenuta a Roma il 9 novembre del 1909. Ci ho lavorato a lungo, prendendo contatto con tanti illustri professori e studiosi che hanno lavorato con lui e che sono stati felici di dare il proprio contributo con testimonianze e racconti personali. È stata anche l’occasione per riallacciare tanti rapporti. Altri tempi. Ho imparato tanto da quella generazione di uomini e di donne. Come da certi grandi illustratori e illustratrici che ho studiato e amato.

Di cui lei è somma conoscitrice, avendo anche scritto la poderosa Storia dell’illustrazione italiana, oltre all’Atlante delle immagini e a più di duecentocinquanta saggi in Italia e all’estero. Ma quanto c’è ancora da dire in questo campo delle arti figurative?

La ricerca non è mai finita. Adesso sto ultimando e dando alle stampe per Treccani la storia delle illustratrici italiane. Dovrebbe uscire a ottobre, con 115 splendide immagini. S’intitolerà Le figure per dirlo, con sottotitolo Storia delle illustratrici italiane. Lo spunto me l’ha dato il famoso romanzo femminile e femminista di Marie Cardinal Les mots pour le dire, in italiano Le parole per dirlo. In questi anni di lavoro la scoperta più importante non è stata però artistica, ma di una rimozione: quella delle donne, anche se alcune sono diventate lo stesso famose in virtù della loro bravura.

Chi è la sua illustratrice preferita?

Sopra tutte metterei Brunetta Mateldi. Mi piaceva la sua capacità di dominare ogni tipo di stile, la competenza, la freschezza e l’inventiva. Avrebbe potuto affermarsi pienamente, ma è dovuta rimanere accanto al marito Filiberto, malato, anch’egli grande illustratore e caricaturista. Come vede, a dominare sono sempre stati gli uomini.

Affiora la sua verve femminista della prima ora?

È quella che mi è costata forse anche un certo ostracismo dell’ambiente musicale. Non era molto gradito che in quei primi anni Settanta una donna si mettesse a fare la paroliera, venendo dal nulla. È vero che io facevo altro, occupandomi di arti figurative (tra le sue opere anche l’illustrazione di seicento animali per il Nuovo Zingarelli) e della mia famiglia con mio marito e i miei due figli Michele e Silvia (illustratrice dei Simpson a Los Angeles), ma la mia stagione musicale fu davvero troppo breve. Mi riscatto però adesso, quasi mezzo secolo dopo.

Si riferisce al ritorno della sua Donna Circo?

Sì, il primo disco femminista italiano. Era il 1974, avevo scritto dodici testi che la mia amica Gianfranca Montedoro aveva musicato e arrangiato. Fu inciso ma mai distribuito, forse perché troppo scomodo. Torna adesso, grazie all’iniziativa di dodici cantanti e musiciste, con la produzione di Ezra Capogna. Ci affidiamo alla gente attraverso il crowdfunding.

Qual è l’attualità di questo suo lavoro?

Secondo il mio stile, attraverso la metafora equiparo la donna a un circense costretto a quotidiani equilibrismi, come per esempio nel brano I due giocolieri. In A dodici metri simboleggio l’alterno contrasto e la precarietà del rapporto di coppia. E in questi tempi di femminicidi è più che mai di attualità. Io però ho sempre avuto qualche problema con certo femminismo, anche se mi occupo di emancipazione delle donne da tempo immemorabile.

Che cosa non le piace?

Il fatto è che io non sono organica, per cui sto fuori da qualsiasi conventicola. Non mi piacciono le parole d’ordine: sei dei nostri, non sei dei nostri. Io non voglio intrupparmi. A partire dall’aborto, che è anzitutto una tragedia. Tutte le donne che hanno abortito sanno che tipo di dolore è e come dura nel tempo. L’aborto è un diritto inalienabile, ma è un diritto triste e doloroso. Quindi non è da sbandierare e tantomeno da festeggiare. Non mi è mai piaciuto sentir parlare di aborto-party.