«Qualche anno fa lessi a sant’Ambrogio in Milano il
Giobbe di Wojtyla. Ecco, il mio Beckett è una sorta di Giobbe moderno». Così Ugo Pagliai racconta come interpreta gli ultimi giorni di vita del grande drammaturgo, nell’applaudito spettacolo
Wordstar(s)di Vitaliano Trevisan, con la regia di Giuseppe Marini, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto e ora in scena al Teatro Vascello di Roma.
Pagliai, lei in scena intrepreta un Beckett anziano e sfiduciato.Metto in scena la condizione comune del passare dell’età, le ossessioni di una vita, la fisicità al traguardo. Il giovane Vitaliano Trevisan racconta la fine di Beckett, con un testo modernissimo senza punteggiatura, paragonando lo scrittore a Wordstar, che era un programma di scrittura per computer ormai obsoleto. Da qui parte una riflessione amara e profonda, sulla fine della letteratura e su quella della vita.
Beckett è anche un anziano solo.Tante persone si ritrovano vivere da sole da anziane, perché la compagna non c’è più, o perché sono stati abbandonati. Beckett si ritrova solo nella sua casa che sta lasciando per l’ospedale o per un ospizio, non si sa, mentre le sue donne riappaiono sotto forma di fantasmi (nel cast c’è anche Paola Gassman ndr). Lui è un personaggio scontroso, con l’ossessione per la parola, difende in modo paranoico la sua scrittura. Urlerà al vuoto che nessuno ascolta, per quanto uno possa dire cose profonde.
Sembra parlare dei tempi di oggi.Sì, oggi tutti parlano e nessuno ascolta. Si sentono solo spot pubblicitari, non c’è più approfondimento. La parola è meravigliosa, può raccontate infinite cose. Io sento molto la disperazione di quest’uomo, che in certe scene è persino comico nella sua lotta contro la vecchiaia e la morte. Perché c’è una vita che vale ancora la pena di essere vissuta, nella sua condizione terribile ci sono attimi di poesia.
Lei ha mai interpretato Beckett nella sua lunga carriera?Un tempo ritenevo, come tutta la mia generazione, che Beckett fosse appannaggio delle nuove leve, della sperimentazione. Poi intrepretandolo, mi sono reso conto che la sua parola, apparentemente così incomprensibile e astratta alla fine si rivela. E io sono molto attento alle parole. Amo la poesia, ho avuto maestri che mi hanno insegnato ad amare la parola e le sue sfumature.
Ultimamente, lei si è lanciato coraggiosamente nella drammaturgia contemporanea.Nella mia vita ho interpretato i classici, specie Pirandello: non si può non conoscere i suoi grandi personaggi che hanno influenzato la drammaturgia moderna. Poi, due anni fa, ho intrepretato
Aspettando Godot con la regia di Sciaccaluga che mi ha fruttato il premio Olimpici per il Teatro. Ora Alessandro Gassman, direttore dello Stabile del Veneto, mi ha affidato questo testo ed io ho avuto modo di scoprire un giovane talento come Trevisan.
Dunque ci sono dei giovani autori di teatro capaci in Italia?Ci sono dei giovani in gamba, e mi auguro che ora ci sia una svolta, perché in teatro non si può andare avanti così. Ci sono tantissime scuole, in troppi vogliono intraprendere questa carriera. Ma il teatro è difficile, occorrono studio, sacrifici, e si guadagna poco. Però c’è chi nasce con il talento, e se lo si accudisce dà i suoi frutti. Bisogna smettere di essere aridi e aiutare i giovani che si sentono soli. Tanti mi dicono, «ma chi te lo fa fare, sta tranquillo, non rischiare». Ma io alla fine dello spettacolo, dico a me stesso «anche stasera ce l’ho fatta» e sono sereno.