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Mezzi di comunicazione e società. Padula (Aiart): nuovi media, stessa passione

Francesco Ognibene martedì 8 marzo 2016

Ogni giorno teniamo accesi, talora senza mai spegnerli, strumenti di comunicazione d’ogni genere. E la coscienza? Restare svegli e critici è impresa sempre più complessa. Ne è più che mai consapevole Massimiliano Padula, da pochi giorni alla guida dell’Aiart (l’associazione di teleutenti d’ispirazione cristiana). Qual è oggi la missione di un’associazione come l’Aiart? «Quella di sempre: aiutare ad affermare, nel campo della comunicazione e dei media, la dignità e i diritti delle persone, della famiglia e dei più giovani. Naturalmente l’Aiart deve confrontarsi con lo scenario mediale contemporaneo, intercettandone tempi, codici e linguaggi». Verso quali impegni prioritari intende portare l’associazione? «Vorrei che diventasse un punto di riferimento per il legame tra comunicazione ed educazione. Le priorità sono una presenza maggiore sul web e sui social e una connessione con i territori. Risvegliare le poche sedi dormienti e valorizzare le tante attive che svolgono un lavoro culturale straordinario». Come pensa di rilanciare l’associazione aprendola di più ai giovani e alle famiglie? «Il primo passo da presidente appena eletto è stato guardarmi intorno, e ho subito apprezzato il gran lavoro svolto dal mio predecessore Luca Borgomeo. L’Aiart è radicata nei territori, riconosciuta istituzionalmente, propositiva nella formazione e nella produzione culturale. Cercherò di consolidare questi ambiti e promuovere percorsi di "rieducazione alla visione", ovvero (ri)formare lo spettatore alle nuove percezioni digitali e ai codici della contemporaneità mediale». Come uscire da un atteggiamento prevalentemente difensivo di fronte a tv e nuovi media? «Abbattendo alcuni pregiudizi concettuali. I media non sono nemici da cui difendersi, anzitutto perché non sono soggetti autonomi dotati di intenzionalità e capaci di azione, "separati" dalla società civile. Dietro ogni contenuto mediale c’è un creatore, un autore, un uomo. Questo vale ancor di più per i media digitali, protagonisti di una rivoluzione invisibile che sta ridefinendo il legame tra uomo e mezzi: ognuno di noi può essere creatore di contenuti e partecipare alla comunicazione globale. Il consumatore può diventare produttore mediale. Difendersi dai media significherebbe, quindi, difendersi da se stessi. Si tratta allora non più di creare barriere ma di sviluppare una consapevolezza condivisa del ruolo della comunicazione digitale e creare una responsabilità diffusa. Per questo l’Aiart punta molto sull’educazione mediale e non solo sul monitoraggio dei contenuti». Le parrocchie possono formare a un uso responsabile dei mezzi di comunicazione? «Possono e devono farlo. Le parrocchie, come le altre agenzie educative (famiglie, scuole, associazioni, istituzioni) rimangono baluardi identitari nel caos del contemporaneo, spazi e opportunità di educazione, luoghi di incontro e confronto con i più giovani. In particolare, credo che le comunità ecclesiali debbano farsi promotrici di percorsi di educazione tout court che riguardano l’uso dei mezzi, ma non solo. L’auspicio è che possano diventare, in un’azione corresponsabile con le altre realtà educative, animatrici di educazione integrale». In famiglia quali comportamenti adottare per non restare schiavi di un consumo passivo o individualistico di tv e nuovi media? «Nonostante i media digitali spingano a una presenza attiva, è innegabile che le pratiche mediali rimangano ancorate a logiche di consumo individuale. Mi riferisco soprattutto alla televisione, medium da molti considerato al crepuscolo eppure ancora così innervante negli spazi familiari. Alle famiglie suggerisco due azioni, da mettere in atto con sapienza: istituire una "zona franca dai media", una porzione di tempo quotidiano (a tavola, ad esempio) in cui tutti i device vengono spenti, per riscoprire la piacevolezza della presenza e della conversazione; e una fruizione condivisa dei contenuti. Affiancare i figli, sin da piccoli ma anche quando sono ormai cresciuti, durante le navigazioni o visioni, porre le giuste domande, liberarsi dalla tentazione di dare risposte precostituite, è un buon esercizio allo spirito critico e a una equilibrata relazione familiare». A che tipo di interlocuzione pensa con i produttori e i diffusori di contenuti? «In questo mio primo mese di presidenza ho già incontrato degli interlocutori istituzionali. Ho percepito disponibilità e ricerca del confronto. Sono loro a sollecitarci a proporre buone pratiche, a criticare costruttivamente, a intervenire riguardo a contenuti che riteniamo discutibili». Pensa a una collaborazione tra Aiart e media cattolici? «Assolutamente sì. L’Aiart deve porsi come una voce cattolica non sovrapponendosi ma integrandosi e mettendo a disposizione le proprie specificità e risorse. Questo vale per i media cattolici ma anche per le altre associazioni di ispirazione cristiana che operano su ambiti comuni. Guardare, capire, discernere insieme. E insieme costruire». In che modo l’associazione può vivere oggi la sua ispirazione cristiana? «Mettendo al centro l’uomo. Sono convinto che l’idea di media debba superare la dicotomia classica strumenti-ambienti, per riposizionarsi in una prospettiva antropocentrica. I media sono proiezioni (da proiectus, progetto) dell’uomo, traslati della sua qualità etica, rifrazioni delle sue intenzioni, gioie o tristezze». Perché una persona che usa ogni giorno media vecchi e nuovi dovrebbe interessarsi alla proposta dell’Aiart? «Perché l’Aiart (e suoi tanti associati) da più di 60 anni forma, educa e tutela gli utenti dei media. E lo fa con passione, competenza, spirito critico, amore e servizio per la Chiesa. Nel profilo personale del cittadino contemporaneo, una componente fondamentale è la sua "umanità mediale": conoscere i media, apprezzarne la bellezza, disapprovarne le ambiguità, valorizzarne le possibilità partecipative e formative sono competenze esistenziali irrinunciabili. L’Aiart garantisce la sua presenza attiva nell’accompagnare questo processo di crescita personale».