Francesco Colloneve, il protagonista di questo interessante romanzo d’esordio del trentaduenne Gabriele Di Fronzo, è un tassidermista, ovvero chi prepara le pelli degli animali in modo da renderne possibile la conservazione, predisponendola, dopo averla spalmata e lavorata con sostanze conservative, su un’imbottitura o un modello di materiali perlopiù plastici, sorretti da sostegni metallici, che imitano le forme dell’animale vivo. Avrei potuto dire imbalsamatore o impagliatore (che, poi, sono solo superficialmente sinonimi), ma sarei stato sbrigativo e impreciso: e cioè non all’altezza di questa prosa notomizzante e sempre perspicua che, quando si misura col mestiere della conservazione, diventa rigorosa sino al tecnicismo. Ciò non vuole certamente dire che la tassidermia non esca da se stessa e non si faccia subito metafora d’un atteggiamento che ha a che fare con la metafisica del vivere, sin dalla prima riga: «Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzi tutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c’era in precedenza, occorre sempre togliere: solo così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre». Ecco il punto: sin da subito, e cioè sin da quando Colloneve fa la sua prima prova con un gatto di pochi mesi, la tassidermia si profila come arte del lutto e iniziazione a un’etica della scomparsa. Dato che risulterà ancora più chiaro quando, ammalatosi il padre e in attesa di ricovero, Colloneve è costretto a trasferirsi nella casa del genitore, le cui condizioni si fanno sempre . Da questo momento – e cioè già dalle prime pagine – il romanzo di Di Fronzo diventa anche il romanzo d’una resa dei conti tra un figlio e un padre (che è, poi, anche una feroce requi- sitoria, una recriminante lista d’addebiti, un riassunto di inadempienze e colpe anche crudeli), ove, però, i rapporti di forza sono ormai invertiti. Dentro una narrazione che è la messa in atto d’una sorta di filosofia della cura: cura degli animali morti da restituire a un simulacro di vita; cura di quel simulacro che è diventata la vita del genitore morente in vista del congedo estremo. Per due discorsi – sugli animali e sul padre – che corrono paralleli, concettualmente omologhi e metaforicamente coerenti. Sicché, se leggiamo che la più difficile delle prove, per un tassidermista, «arriva al momento della posa da scegliere per l’animale », ecco, una pagina dopo, la verifica sul piano della vita: «Fossi stato bravo avrei conferito a mio padre la postura eretta da uomo adulto». Abbiamo visto come, per Colloneve, l’arte del lutto, in vista del superamento della perdita, sta in una disciplina del togliere e dello svuotare. Si tratta infatti, ora che il genitore è morto, con la stessa precisione e concentrazione che esige la tassidermia, di allestire il vuoto dentro la casa del padre. Non altro senso, infatti, hanno i cataloghi degli oggetti evocati a surrogare la presenza e l’attività paterna, se non quello di ritualizzare il nulla, per fingersi, soprattutto nel sentimento, che, appunto, il vuoto non è perdita e trionfo del niente, ma nuova e gloriosa vita: «Il mio grande animale […] è finalmente vuoto, prima di adesso non avevo mai visto la casa di mio padre senza che nulla ci fosse dentro, l’ho svuotato io ed è pronto a non morire mai, ora il suo corpo fondo non avrà deperibilità».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Gabriele Di Fronzo
IL GRANDE ANIMALE Nottetempo. Pagine 162. Euro 12,00 Un tassidermista scopre nel suo lavoro un’arte del lutto e un’iniziazione all’etica della scomparsa che porta anche nel suo rapporto con il genitore