Il professor Angelo Serra – padre Angelo per molti di noi onorati dalla sua amicizia – è stato uno scienziato di grande valore, riconosciuto internazionalmente. Senza fanfare e sempre al riparo della sua infinita modestia, egli ha dato molto alla genetica, all’Istituto di Genetica dell’Università Cattolica che ha fondato e per molti anni diretto, ai suoi allievi, alla Chiesa. La fase più significativa della sua storia di ricercatore (della quale sono stato per buona parte testimone diretto) inizia con la chiamata alla neonata facoltà di medicina della Cattolica, nel campus romano di Monte Mario dove stava sorgendo anche il Policlinico Gemelli. Correva l’anno 1964, la facoltà era ancora in fase di costituzione, era in carica un comitato ordinatore al quale va dato atto di aver avuto quella che
a posteriori potremmo chiamare una grande illuminazione: stabilire che fra gli Istituti della nascente facoltà doveva esserci anche un Istituto di genetica, e affidarne la guida a un giovane ricercatore, ancora ai primi passi della sua carriera accademica. Fu davvero una scelta forte e per nulla scontata, in anni in cui la genetica era ancora una disciplina secondaria (allora si chiamava «complementare»), che gli studenti non avevano nemmeno l’obbligo di imparare. E una scelta che poi si rivelò anche di grande coraggio, se pensiamo alla rovente questione dei rapporti fra scienza e fede che si gioca oggi in gran parte sul fronte avanzato delle conoscenze del genoma umano e delle sue possibili manipolazioni. Il professor Serra mise immediatamente mano all’organizzazione dei nuovi laboratori dell’Istituto, reclutò i primi tecnici e ricercatori, avvio le prime ricerche. Fin da subito comprese, lui biologo, che all’interno di una facoltà medica la genetica non poteva sottrarsi al compito di dare anche un contributo clinico. Erano gli anni durante i quali stava fiorendo una branca particolare della genetica, la citogenetica, ossia lo studio dei cromosomi umani in relazione a ben note patologie, quali la sindrome di Down. E così, all’inizio degli anni Settanta, venne formalmente costituito il Servizio di Citogenetica per il Policlinico Gemelli e per il pubblico che dall’esterno volesse afferirvi per via ambulatoriale. L’avvio di questa attività clinica ha anche determinato, seppure indirettamente, una svolta nel mio percorso professionale. Da studente avevo conosciuto il professor Serra, ma poi c’eravamo persi di vista. Subito dopo la laurea avevo lasciato l’Università Cattolica per un’esperienza negli Stati Uniti. Tornato in Italia, e in cerca di un posto dove poter continuare le mie ricerche, per caso (ma è un caso che io chiamo Provvidenza), incontrai nuovamente il padre Serra, gli raccontai le mie traversie e ne ricevetti subito un offerta di lavorare con lui. La mia nascita come genetista risale ad allora, e da allora padre Serra mi ha cresciuto con lo stile che gli era proprio, proponendomi un modello da imitare, se volevo, ma lasciandomi anche massima libertà. Cominciai a collaborare con lui sugli studi che stava conducendo sulla sindrome di Down e sulle cause genetiche dell’insuccesso riproduttivo, ed ebbi la fortuna di esser testimone di una delle grandi scelte che caratterizzarono il suo lavoro di scienziato attento alle problematiche della medicina, cioè quella di allargare il Servizio di Citogenetica anche alla diagnostica prenatale, scelta che immagino maturata dopo lunghe ore di riflessione e di preghiera. Siamo negli anni fra il 1975 e il 1980 e la cultura del nostro Paese stava cambiando rapidamente. Da poco era stata introdotta la legge sul divorzio, e poco dopo sarebbe stata approvata anche quella sull’aborto, e si andava diffondendo una mentalità «libertaria» che tendeva a dare per scontata non solo la possibilità, ma quasi l’obbligo di interrompere la gravidanza quando una diagnosi prenatale avesse accertato la presenza di un difetto genetico nel feto.
Padre Serra camminava dunque su un crinale molto pericoloso, ma nondimeno proseguì con coraggio e fermezza su una linea che si sarebbe rivelata profetica e che contribuì in maniera determinante ad affermare il principio che i genitori hanno il diritto di conoscere lo stato di salute del proprio figlio, che è figlio allo stesso modo prima e dopo la nascita, e a mettere le basi di una medicina prenatale che vuole andare in soccorso non solo della madre, ma anche e allo stesso modo del bambino che deve nascere. Il coraggio di questa scelta è stato ugualmente riconosciuto da amici e avversari (scientifici ovviamente) ed ha avuto quella che potremmo chiamare la sua consacrazione nel 1987 dalla istruzione Donum Vitae che porta in calce la firma del cardinale Joseph Ratzinger. La carriera accademica del professor Serra, pur seguita dai canonici cinque anni di «fuori ruolo», si è conclusa nel 1989 con un simposio internazionale sulla Trisomia 21, che rimane ancora oggi nella memoria di chi vi ha preso parte. Fu davvero un evento straordinario, che contribuì a rinvigorire le ricerche sulla sindrome di Down, anche con le nuove tecniche della genetica molecolare. Dopo si è aperta per lui una nuova fase, durante la quale ha coltivato soprattutto gli studi sulle implicazioni etiche delle nuove scoperte della genetica e della biologia, pubblicando numerosi lavori su La Civiltà Cattolica e contribuendo ai lavori della Pontificia Accademia pro Vita della quale era stato chiamato a far parte. Con noi suoi allievi ha continuato ad essere prodigo di consigli e di incoraggiamento, e soprattutto di preghiere. Da genetista e da sacerdote, proprio come il suo grande predecessore Gregor Mendel, ci ha trasmesso due caratteri «dominanti», l’amore per la scienza e il rispetto per il prossimo. Glie ne siamo grati e speriamo di essere stati all’altezza di un così grande dono. Nel momento in cui un uomo di Dio ci lascia per nascere a nuova vita, è bello ricordarlo con le parole di sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente; la vita dell’uomo è contemplare Dio». Padre Serra è stato davvero «uomo vivente», e per tutta la sua vita, fino all’ultimo, ha contemplato Dio.