«Che cosa vuol dire essere un
cura villero? Le faccio un esempio: da poco la pioggia ha allagato la
villa (baraccopoli) dove vivo. La mia casa si è riempita d’acqua. Proprio come il resto del quartiere. Così, abbiamo preso il coraggio a quattro mani e il secchio con due e ci siamo messi a raccoglierla. Tutti insieme». Non è cambiato padre José Di Paola, meglio conosciuto come «il padre Pepe». Ha lo stesso sorriso franco, gli occhi fermi e il modo di parlare colorito di 5 anni fa, quando la stampa "scoprì" la lotta "rivoluzionaria" di questo sacerdote allegro quanto determinato contro il
paco. Nelle nostre discoteche – e non solo – dilagano droghe sintetiche e cocaina. Gli scarti della lavorazione della polvere bianca vengono, invece, smerciati nel Sud del mondo e in particolare in quelle periferie dimenticate dell’America Latina che cambiano nome a seconda del Paese. A Rio sono
favelas, a Bogotà
barrios, a Buenos Aires
villas miserias. Microcosmi dove «il
paco è depenalizzato di fatto». È stata questa frase scritta in un documento della Vicaria delle villas miserias dell’arcidiocesi porteña nel 2009 – a catapultare padre Pepe sulla ribalta mediatica. O meglio le conseguenti minacce dei narcos contro il sacerdote. L’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio – che aveva sostenuto il testo dei curas villeros – decise di rendere pubblica la notizia per proteggere Pepe, di cui aveva sempre supportato l’impegno. Da quel momento, il sacerdote è diventato l’emblema del cura villero. Tanto da avere ispirato anche il regista Pablo Trapero nella realizzazione del film
L’elefante bianco, presentato nel 2012 a Cannes. «Non esageriamo. Non sono mica Ricardo Darín», scherza.
Però lui stesso ha detto di avere presente la sua figura quando recitava… A proposito, ha visto il film?«Sì, e in generale mi è piaciuto. Descrive in modo veritiero la condizione di marginalità che si vive nelle villas. Manca, però, un aspetto, secondo me fondamentale. Non c’è traccia della forza vitale delle baraccopoli: chiunque vi abiti ne resta affascinato. I villeros sono persone con profondi valori umani e religiosi. La maggior parte viene in città per cercare un futuro migliore e invece di arrendersi alle avversità costruisce: la propria casa, il proprio quartiere… Ma tutto questo lo scopri quando "vivi" la villa. Per noi curas villeros è fondamentale la prossimità: stiamo nella baraccopoli come chiunque altro, condividendo con gli abitanti gioie, drammi, speranze».
Come ha deciso di diventare un «cura villero»?«Nel 1996, padre Jorge… cioè l’allora vicario episcopale e attuale papa Francesco, mi ha mandato nella parrocchia di San Panteón, vicino alla villa di Ciudad Oculta. Così mi sono avvicinato a questa realtà. L’anno dopo sono stato nominato parroco della villa 21-24».
E là è rimasto fino qualche tempo dopo le minacce…«Avevo necessità di una pausa. La tensione era molto forte. Così mi sono trasferito per un po’ a Santiago dell’Estero, nel nord dell’Argentina».
È tornato a Buenos Aires poco prima che fosse eletto al soglio pontificio un Papa «dalla fine del mondo», come si è autodefinito Francesco. «L’arcivescovo villero, lo chiamavano, perché non si stancava di calpestare le strade dissestate delle nostre villas. Il cardinale Bergoglio ha portato le periferie al centro, facendo in modo che l’attenzione dell’intera arcidiocesi si rivolgesse verso queste ultime. Una rivoluzione copernicana. Agli occhi dell’opinione pubblica, le villas erano – e a volte sono ancora, purtroppo – terre di nessuno, mondi separati, sinonimo di droga e violenza. L’arcivescovo ha infranto le barriere, in una prospettiva di fraternità. Ce lo ripeteva sempre: i villeros non sono solo persone da aiutare, ma donne e uomini da cui imparare».
In quest’ottica, l’allora cardinale ha creato la «Vicaria de las villas» nel 2009. «E noi curas villeros siamo passati da 8 a 22. L’arcivescovo ci ha sempre sostenuto in modo straordinario. Ci diceva: "Chiamatemi in qualunque momento"».
E lei lo chiamava?«Certo. Non solo quando avevo un problema. Anche quando la mia squadra, l’Huracán, batteva la sua, il San Lorenzo… Scherzi a parte, l’ho capito subito, quando l’ho conosciuto nel 1993, che padre Jorge era un uomo e un pastore straordinario: aperto, semplice, disponibile al dialogo. Gli ho sempre parlato con franchezza, di ogni questione. E lui a me. Non era solo il mio arcivescovo. Era ed è un punto di riferimento umano e spirituale».
E dire che quando hanno cominciato il lavoro nelle baraccopoli, dopo il Concilio, i «curas villeros» erano considerati un po’ un’anomalia..«Eh già. Erano "bestie rare". I primi pionieri sono arrivati alla fine degli anni Sessanta, come i padri Daniel De La Serra e Carlos Mujica, ucciso prima del golpe da milizie paramilitari (il volto biondo e sorridente di padre Carlos spunta alle spalle di padre Pepe, ndr. E da allora, generazione dopo generazione, la Chiesa non ha mai abbandonato le villas. Per questo, noi curas attuali – eredi di quell’intuizione post-conciliare abbiamo la fiducia delle persone».
Che cosa è cambiato in questo mezzo secolo di lavoro?«I problemi sono differenti. Prima c’era l’instabilità politica, la dittatura, la repressione. Ora c’è il paco. Ma attenzione: i villeros non sono narcos, sono le prime vittime di questi. I trafficanti approfittano dell’emarginazione delle villas per invaderle con la droga, distruggendone il tessuto comunitario e solidale».
Come cercate di arginare la deriva?«Nella villa 21-24 abbiamo sperimentato nel 2008 il primo "Hogar de Cristo", un centro di recupero radicato nella comunità. Da allora ne sono stati creati diversi. Il percorso di disintossicazione prevede la frequenza di un centro diurno, un periodo in una fattoria e la partecipazione a corsi di formazione professionale. L’obiettivo è che il giovane termini il processo avendo degli strumenti per potersi reinserire nella struttura economica. E abbiamo visto che questo metodo funziona: l’80% dei nostri ragazzi esce dal paco. Tanto che abbiamo deciso di replicare l’esperimento».Il cardinale le ha detto che si deve imparare dai «villeros»… A lei che cosa hanno insegnato?«Il valore della festa e dell’allegria. E della comunità. I villeros sono tra i pochi argentini – e non solo – immuni dal virus dell’individualismo. Che ci rende così tristi».