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Parag Khanna. «Come cambia la geografia all'epoca della connettività globale»

Simone Paliaga lunedì 14 novembre 2016

«L'Italia deve investire sulla formazione di operai e artigiani e rendere più conveniente per loro muoversi verso dove c’è richiesta di posti di lavoro e spazi favorevoli per fare impresa». Nemmeno quarantenne, l’indiano Parag Khanna è uno dei più noti analisti di politica internazionale. Con Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale (Fazi, pagine 614, euro 26,00) conclude la sua trilogia volta a descrivere le trasformazioni globali all’indomani del 1989. Ne discuterà il 19 novembre alle 13 in occasione di «Bookcity» alla Sala convegni di Palazzo Mezzanotte a Milano con Giulio Tremonti e Nicola Saldutti. Dopo avere analizzato il ruolo dei nuovi imperi e l’influenza di mafie e società private nel disegnare le dinamiche internazionali, Khanna tratteggia la fisionomia del mondo avvolto dalla trama delle connessioni e non rinuncia a parlare di Italia.

Cosa intende per connectography? Sostituirà nelle nostre menti la geografia?

«Connectography è la fusione di connettività e geografia; non abrogherà la geografia, si costruisce su di essa».

Può spiegarsi meglio?

«Alludo agli strati permanenti di infrastrutture come ferrovie, oleodotti e cavi internet che coprono la Terra. È la nuova geografia costruita al di sopra della geografia politica e fisica».

Secondo lei i gangli di questa trama di infrastrutture sono le megalopoli. Cosa sono di preciso?

«Sono degli aggregati, dei cluster urbani con una popolazione di almeno 10 milioni di persone, ma a volte raggiungono anche gli 80. Pensi a Chuanyu, nel cuore della Cina. Nel mondo oggi ne esistono 50. E l’economia mondiale ruota intorno a essi per il loro enorme peso demografico e commerciale. Ormai contano molto di più della maggior parte degli Stati».

Questi cluster globali annunciano il declino delle culture locali?

«Niente affatto. Le culture locali acquisiscono rilievo allorché cominciano ad attrarre risorse e attenzione dalle città. Sono amplificate dagli investitori e delle istituzioni che incentivano il consumo da parte dei residenti e dei visitatori».

Ci sono megalopoli in Europa?

«Tecnicamente l’Europa ne ha due, Londra e Mosca. Ed è la situazione migliore».

In che senso migliore?

«Le città di medie dimensioni sono più a misura umana, ruotano intorno a economie dei servizi e un’alta percentuale della popolazione lavora nelle Pmi».

Sembra la descrizione dell’Italia...

«La sua situazione non è diversa dal resto d’Europa. Questo significa che il Vecchio Continente in generale e l’Italia in particolare devono investire sulla formazione e connettività di operai e artigiani e rendere loro più conveniente muoversi verso dove c’è richiesta di posti di lavoro e spazi favorevoli per fare impresa».

Nel mondo di connectography il potere si sposta dai governi ai cittadini. Una devoluzione positiva?

«Il passaggio del potere dal centro ai governi locali incoraggia autonomia e responsabilità anche nella gestione del fisco. Penso che sia la forma più pura di democrazia».

In Italia da anni si accarezza un progetto di devolution...

«L’idea migliore sarebbe riorganizzare il vostro Paese in 14 regioni metropolitane che finirebbero per avere maggior peso economico e autonomia. Ma ci vuole tempo per realizzarla. Un Paese forte ha bisogno di più centri di potere e d’influenza. Per ritrovare un ruolo l’Italia dovrebbe effettivamente avere almeno una dozzina di realtà commerciali fiorenti».

Ma, indeboliti gli Stati, non saranno le multinazionali a dominare a danno delle democrazie?

«Le multinazionali, che io chiamo superpotenze apolidi, sono sempre più ricche e globali. Non significa però che siano più forti. Prosperano fornendo servizi e utility. Sta quindi ai governi tassarle di più e incentivarle a investire sul territorio. Se non lo fanno è colpa loro».

Ma come possono, se lei stesso prospetta un mondo senza confini?
«Non lo prevedo affatto, anzi ne vedo uno con un crescente numero di frontiere. Il mondo diventa sempre più connesso proprio perché troviamo sempre più Paesi, alcuni così piccoli da non avere altra scelta per sopravvivere che connettersi tra loro.

Però in Europa si erigono muri per evitare di farlo.

«Che in Europa lo si faccia non significa che rispecchi lo stato del mondo. Solo quest’anno l’Asean, la regione del Sud-est asiatico, ha sottoscritto un accordo sulla mobilità delle persone per ragioni di lavoro. Parliamo di 650 milioni di cittadini, cifra ben superiore alla popolazione europea. I leader africani si muovono nella stessa direzione. E qui abbiamo a che fare con oltre un miliardo di persone. Si sbaglia quindi a considerare l’Europa rappresentativa del mondo».

Europa e Italia freneranno il declino?

«Possono farlo ampliando l’Ue. Questo significa promuovere un’unione bancaria, fondere i mercati e i regimi fiscali. L’Ue dovrebbe completare l’adesione dei Paesi balcanici e pure dell’Ucraina. E magari rimanere aperta ai migranti assimilandoli però meglio di come sta facendo».

È possibile farlo?

«Per ora ci sono riusciti i Paesi dell’Anglosfera come Canada, America e Australia. Bisogna costringere i migranti stranieri a imparare l’italiano. Solo così potranno integrarsi meglio e contribuire al benessere della società».