Acqua: «utile et humile et pretiosa et casta». Acqua: una pozza, una sorgente, alcune gocce, una piscina, un tubo, un flacone, bottiglie e taniche. San Francesco ne parlava in termini idilliaci. Purtroppo in Israele e Palestina anche l’acqua diventa materia di intimidazione e scontro.
Water, presentato lo scorso giugno all’International Student Film Festival di Tel Aviv e che inaugura il 29 agosto la Settimana della Critica alla Mostra veneziana, è un esempio di come pregiudizi e ostilità possano cedere al dialogo. Otto registi, israeliani e palestinesi, hanno girato sette episodi, lavorando fianco a fianco, insieme a tecnici e cast di entrambi i popoli. Le brevi storie sono tutte costruite intorno alle loro esperienze personali, creando piccoli segmenti di verità (
La piscina di Kareem di Ahmad Bargouthi,
Il venditore d’acqua di Mohammad Fuad) oppure squarci nella memoria rivisitata (
Gocce di Pini Tavger,
Still Waters di Nir Sa’ar e Maya Sarfaty,
Raz e Radja di Yona Rozenkier,
Gocce per gli occhi di Mohammad Bakri, Ora e per sempre di Tal Harig). Yael Perlow, dell’Università di Tel Aviv, che ha ideato il film e ne ha seguito la produzione, è rimasta sorpresa dai centoventi soggetti ricevuti. Ben conscia, anche, delle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare. «Quelle attese – ricorda –, al di là dell’indifferenza in cui ormai viviamo e che scoraggia ogni iniziativa, consistevano nei vecchi preconcetti, nelle paure, nei pregiudizi dei giovani registi, sia israeliani che palestinesi. Inoltre, cresceva la convinzione, tra quest’ultimi, che avrebbero dovuto per principio boicottare qualsiasi tipo di partecipazione ad attività culturali con gli israeliani. Una sorpresa è venuta, invece, quando ho proposto il tema agli studenti del mio Paese: la risposta è stata entusiasta, contrariamente alla loro iniziale indifferenza. Sembrava che il soggetto del conflitto israelo-palestinese fosse stato da sempre sepolto da qualche parte nella loro consapevolezza e che avessero bisogno di uno stimolo per portarlo in superficie. Lo hanno fatto usando storie personali, quasi tutte legate alla loro esperienza nell’esercito».L’acqua è un tema che non è stato scelto a caso. «L’acqua evoca quiete, natura serena. Ma nel nostro contesto conflittuale è chiaramente un oggetto della politica, comporta scontri permanenti, spesso violenti. È stato questo forte contrasto tra le immagini poetiche e quelle dure della vita quotidiana che mi hanno convinta della forza, anche cinematografica, del nostro progetto». Al quale israeliani e palestinesi hanno diversamente aderito. «È stato facile convincere gli studenti israeliani, che dimostravano curiosità, apertura intellettuale e forse una sentimento di colpevolezza dovuto ai lunghi anni di occupazione della Palestina. È stato sicuramente più difficile raggiungere i giovani registi palestinesi dal momento che era impossibile un contatto diretto con loro: è vietato dalla nostra legge attraversare il confine tra Israele e i Territori Occupati. Tuttavia, una volta contattati, anche attraverso Facebook, hanno reagito subito con interesse». Ahmad Bargouthi, volto ben noto della televisione palestinese, debutta nella regia con l’episodio, vero, in cui una piscina gestita da un anziano arabo, unica sua fonte di sostentamento, viene affollata da famiglie palestinesi e poi drammaticamente occupata da gruppi di coloni. «Volevo far conoscere a tutti, ma soprattutto al pubblico israeliano, la realtà in cui viviamo – spiega – la paura che ci accompagna. Ci sono due popoli che, dalla costruzione del muro che li divide, non conoscono più nulla l’uno dell’altro. Se ciascuno sta nel suo angolo, non saremo mai capaci di risolvere il conflitto che ci divide. Per questo è importante dimostrare, come fa questo film, che possiamo lavorare insieme e vivere come vicini e amici». Se un altro consacrato autore arabo, Mohammad Bakri, scrive una storia delicata,
Gocce per gli occhi, che unisce due giovani a una anziana sopravvissuta all’Olocausto, il gruppo di esordienti registi israeliani sceglie strade molto personali e originali. Tra questi Pini Tavger, che in ben diverse
Gocce, film breve scritto e diretto con formidabile intelligenza, riflette sulla sua crisi come buon soldato e come figlio obbediente. «Volevo fare il musicista – racconta – ma l’esercito mi ha reclutato. La fuga nel bagno, sulla quel si basa il mio film, è stata realmente il momento in cui ho avuto questa rivelazione sonora: le gocce dei rubinetti mi hanno fanno riacquistare umanità. Ho aggiunto l’episodio della vasca da ragazzo per creare un collegamento tra militarismo e paternità, vita pacifica e maternità». Ha lavorato con molto entusiasmo: «Sapevo bene quanto sarebbero stati difficili i contatti con i colleghi palestinesi, vista la guerra che ci divide. Era la prima volta che avrei potuto parlare con loro di cinema, dunque conoscerli su un territorio comune e non su un campo di battaglia, condividendo una passione e un set».