Dibattito. La pace val bene una piazza
Chi scuote il capo, chi annuisce, chi esprime perplessità... La proposta, o la provocazione di Franco Cardini di celebrare la prima guerra mondiale nel nome non della vittoria ma della concordia, intervenendo pure sulla toponomastica, suscita tra gli storici reazioni discordi. Ma ha comunque il merito di aprire la discussione. Drastico è Francesco Perfetti, docente alla Luiss e direttore di “Nuova storia contemporanea”: «Non si può condannare un avvenimento, la Prima guerra mondiale, che porta a compimento la rivoluzione delle nazionalità avviata nell’Ottocento. Un processo lungo che dà vita a nazioni vere e proprie, una circostanza che non si può ignorare per non falsare la storia». Perfetti non nega che la guerra scoppiata nel 1914 abbia avuto in sé elementi tragici: «Per l’Italia ha voluto dire morte e sofferenza. Ma è stato anche il punto di arrivo del processo di unità nazionale. Nelle trincee, italiani che finora si erano ignorati, del Nord e del Sud, cominciano a comunicare. Un altro aspetto negativo è la scomparsa di un’intera classe dirigente morta sul fronte. Ma la guerra è stata anche un meccanismo di trasformazione del Paese da agricolo in industriale, da rurale a urbano, determinando una forte mobilitazione sociale. Lo stesso sentimento religioso ha conosciuto un risveglio ». E quindi il passaggio da “vittoria” a “concordia”? «Non mi convince affatto». L’idea non dispiace invece ad Agostino Giovagnoli, docente all’Università Cattolica: «Un passaggio dalla vittoria alla pace storicamente ha senso. Le due guerre mondiali sono state decisive nella trasformazione dell’Europa in continente di pace, e celebrare la pace di tutti anziché la vittoria di alcuni non è una proposta da scartare: il concetto stesso di “celebrazione della vittoria” è vecchiotto e tutti sappiamo la fine che fecero, di lì a poco, alcuni vincitori». Agli stessi nomi evocativi, ieri, di Trento e Trieste, oggi i cuori non si scaldano più tanto: «Il centenario, invece, può essere l’occasione per ricomprendere una tappa dolorosa ma significativa verso la pace. E la stessa Europa questo può insegnare al mondo: come fare la pace dopo secoli di guerra». C’è poi chi condivide il punto di partenza di Cardini, ma non il punto d’arrivo. «È innegabile – spiega Gianpaolo Romanato, docente all’Università di Padova – in questi anni abbiamo fatto assai poco per formare una coscienza europea, nonostante le migliaia di studenti Erasmus sguinzagliati per l’intero continente siano di fatto artefici di una nuova cultura, che non può non scalzare i vecchi nazionalismi. Però...». Però? «Ho forti dubbi che per costruire questa cultura occorra cambiare nome a qualche piazza. E poi non c’è solo la “vittoria”. Che ne dovremmo fare delle piazza Cesare Battisti e Nazario Sauro, dei viale Piave, Isonzo, Monte Nero e Monte Grappa? Cambiamo nome a tutto, compresa Vittorio Veneto?». In effetti la cosa si complica. «Lasciamo la toponomastica com’è, se non altro per non confondere ulteriormente le idee a troppi giovani digiuni di storia. Piuttosto, vorrei che l’alluvione di celebrazioni in arrivo servisse a ricordare che la Grande Guerra fu la grande tragedia dell’Europa. Da lì a poco cominceranno gli orrori del secolo breve. E l’Europa che stiamo ricostruendo ora l’abbiamo distrutta allora». Per Romanato c’è un unico personaggio del tempo da celebrare veramente: «Benedetto XV, il papa che definì la guerra “suicidio dell’Europa” e “inutile strage”». E se la proposta di Cardini ottenesse un effetto opposto a quello voluto, aggiungendo e non togliendo retorica? Se lo domanda Francesco Bonini, docente di Storia delle istituzioni politiche e prorettore alla Lumsa: «Modificare la toponomastica, compresi i nomi delle battaglie, mi sembra un’operazione imposta dall’alto. E comunque in questo momento i ragionamenti sulla Prima guerra mondiale mi sembra accentuino l’elemento europeo, stemperando le possibili impostazioni nazionalistiche. Per le nuove generazioni quella guerra è una vicenda remota, almeno quanto per noi cinquantenni, alla loro età, erano le gesta garibaldine». In questo gioco di generazioni, le passioni nazionalistiche sono assenti. «Semmai la guerra va letta nei grandi fatti strutturali che determinò: la nascita della società di massa e della mobilitazione collettiva, le sofferenze dei singoli inserite in quelle del popolo intero; e le innumerevoli vicende personali, memorie straordinariamente simili da entrambi i lati del confine». Bonini ricorda il progetto Europeana: «È la raccolta di memorie materiali: lettere, diari e oggetti. Il vissuto quotidiano era identico in tutta Europa. Ci furono ragioni e torti, ma le sofferenze individuali erano identiche, e generale il rifiuto della guerra». Infine, c’è chi definisce quella di Cardini una «provocazione utile», pur ritenendo inopportuno intervenire sulla toponomastica. Lo storico Alberto Monticone, autore del noto Plotone d’esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale, sottolinea l’importanza di «orientare le celebrazioni verso il senso di appartenenza dei popoli d’Europa a un destino comune». E la toponomastica? «L’esempio di Napoleone non mi pare calzante. Battezza Place de la Concorde da imperatore, certo non volendo propugnare una “concordia europea”. E guai a sottovalutare i segni e i simboli della storia, che sono poi i segni e i simboli della sofferenza della gente: per me devono rimanere inalterati, a cominciare da ossari e sacrari da entrambi le parti. Sono il segno forte di quanto raggiunto dalla nazione con quel sacrificio. Penso soltanto a come reagirebbero i francesi, morti a centinaia di migliaia e loro sì “esaltati” dalla retorica nazionalistica, se vedessero cancellati i segni della loro vittoria costata tanto cara. No, i segni restino. Si confrontino. E noi contemporanei traiamone l’insegnamento».
Monticone invita a mettersi nei panni delle popolazioni dei territori occupati, dei profughi, dei prigionieri: come potrebbero riconoscere nelle loro terre i segni della concordia? «Vedo semmai opportuno – conclude – un impegno comune verso un’idea di Europa non come “grande nazione” contrapposta a qualcuno, ma “polmone del mondo”, realtà aperta. Dopo il tempo dei profeti, quando l’Europa era da costruire, oggi viviamo un’Europa dai confini non più delimitati e armati, ma spalancati. E sarebbe importante che nelle celebrazioni non fosse presente soltanto la sensibilità maschile, quella dei caduti, ma anche quella femminile. Le donne soffrirono indicibilmente, negli ospedali, delle fabbriche, nelle campagne. Loro e solo loro hanno educato i bambini. Loro hanno tenuto insieme il tessuto connettivo del Paese».