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Letteratura. Osip Mandel’štam: quando la poesia vince la storia

Alessandro Zaccuri mercoledì 11 agosto 2021

Osip Mandel’štam (1891-1938)

Nascosti, dimenticati, ritrovati, pubblicati clandestinamente dopo che clandestinamente erano stati fatti uscire dall’Unione Sovietica. E riconosciuti, alla fine, come parte irrinunciabile dell’opera di Osip Mandel’štam, uno dei maggiori e forse il più travagliato tra i poeti fioriti in Russia all’alba del secolo scorso, mentre al sogno della rivoluzione faceva seguito il duro risveglio nel regime stalinista. Sono i cosiddetti Quaderni di Mosca, che soltanto ora vengono integralmente proposti al lettore italiano grazie al lavoro congiunto di Pina Napolitano e Raissa Raskina per Einaudi (pagine XLVIII+294, euro 16,50, con testo originale a fronte). Nel nostro Paese, in realtà, alcuni dei testi cominciarono ad arrivare già all’inizio degli anni Settanta per la mediazione di Serena Vitale, che rimane la più assidua esploratrice dell’universo del poeta. Ma non va dimenticato che di recente la maceratese Giometti & Antonello ha a sua volta avviato una nuova edizione delle opere di Mandel’štam (la versione è questa volta di Gario Zappi), che vale a ulteriore conferma di un interesse che è andato rafforzandosi nel corso del tempo. Per molti motivi, andrà sottolineato, ciascuno dei quali comprensibile. Nato a Varsavia nel 1891 in una famiglia della borghesia ebraica, Mandel’štam è anzitutto un poeta di indubitabile grandezza. Entra nella storia della letteratura russa non ancora ventenne, ma già rivendicando la statura immediata del classico, ossia di un autore che – secondo la sua celebre definizione – non può essere contemporaneo di nessuno fuorché di sé stesso. Insieme con Anna Achmatova, Mandel’štam è uno degli esponenti di spicco dell’acmeismo, il movimento letterario che, anziché fronteggiare polemicamente la modernità, sceglie di costeggiarla richiamandosi alla tradizione classica. Nel 1928, quando un’ingiusta accusa di plagio rende ancora più precaria la sua posizione, Mandel’štam sta attraversando un periodo di un silenzio poetico che si interromperà solo nell’autunno del 1930, con i primi versi appuntati sui famosi quaderni: «Quanta paura, io e te / compagno mio dalla bocca grande!». Da lì in poi il «Codice Vaticano », come lo stesso Mandel’štam lo definisce scherzosa- mente, cresce di concrezione in concrezione, lasciando dietro di sé anche una serie di frammenti di dolorosa, affascinante incompiutezza. Come questo: «Mosca ha telefoni e alberi di pado, / e giorni per le esecuzioni rinomati». Oltre che segnare la personale catastrofe di Mandel’štam, il 1928 corrisponde del resto all’irrigidirsi della politica economica sovietica. Lo stalinismo si sta consolidando e lo stesso Mandel’štam è destinato a pagare cara la sua mancanza di ossequio verso il dittatore. Nel 1934 viene confinato a Voronež con la moglie Nadežda, che avrà un ruolo determinante nella salvaguardia dei suoi scritti. Tornato in libertà nel 1937, l’anno successivo viene di nuovo arrestato e deportato in Siberia, dove muore in circostanze rimaste in parte incerte. A questo punto la saldatura tra la poesia di Mandel’štam e le vicende sanguinose del Novecento è ormai avvenuta, ed è un’altra delle ragioni, tutt’altro che irrilevante, dalla quale deriva la perdurante fortuna dell’autore. Quello dei Quaderni di Mosca non è l’ultimo Mandel’štam (proprio a Voronež, infatti, si collocherà il compimento della sua parabola artistica), ma è indiscutibile che il piccolo corpus adesso restituitoci nella sua interezza da Napolitano e Raskina contenga alcuni dei momenti decisivi di questa vicenda umana e letteraria. Si pensi ai versi nei quali Mandel’štam ripercorre le tappe del suo viaggio in Armenia, «paese di colori andati a fuoco / e di morte pianure di vasai», e agli scorci notturni della «Mosca buddista», aggettivo che vale a evocare un’imperturbabilità pressoché assoluta. Al centro di tutto sta la vitalità e la mescolanza delle lingue, dall’armeno al tedesco («Una lingua staniera mi farà da guscio / e molto prima che osassi nascere, / ero una lettera, ero una riga di vite, / ero il libro che voi sognate»). Un ruolo particolare riveste l’italiano, la cui presenza è attestata dalle traduzioni da Petrarca e dall’omaggio rivolto a Tasso e Ariosto. Su ogni altro spicca Dante, l’unico poeta verso il quale Mandel’štam potesse considerarsi in soggezione, senza per questo esitare a rubargli un’immagine memorabile: «Vi ricordate i corridori / che nei dintorni di Verona, / devono per giunta srotolare / una pezza di drappo verde. / Ma tutti gli altri batterà / colui, colui di certo / che dal canto dantesco fuggirà / a disputar nel cerchio».