Idee. Ornamento, delitto o diletto?
Disegno da tessuto decorativo per camicetta proveniente dalla popolazione Kuna (Panama, XX secolo)
In un film di qualche anno fa, The Equalizer (Il vendicatore, interpretato da Denzel Washington), un mafioso russo viene chiamato per risolvere la crisi portata dal giustiziere che ha ucciso alcuni membri del clan colpevoli di infierire su una prostituta. Il killer russo, interpretato dal neozelandese Marton Csokas, ha un fisico palestrato e una inclinazione patologica alla crudeltà. Che cosa tiene insieme le sue qualità: mafioso, russo, crudele, irascibile, ma gelido, insensibile al dolore, suo e degli altri? È un elemento “superficiale” per così dire, qualcosa che appartiene al genere dell’ornamento: il tatuaggio che ricopre gran parte del suo corpo. Secondo uno stereotipo che ritrova un fondamento nella realtà, il tatuaggio spesso connota l’immagine dei mafiosi russi o di quelli della Yakuza giapponese. Così, il tatuaggio è il punto di connessione fra ornamento e crimine nella sua apparenza terrificante. Ed esiste una galleria piuttosto vasta di fotografie che ritraggono galeotti col corpo tatuato. Quelli del mafioso russo sono tatuaggi che indicano violenza, fra il demoniaco e il teratomorfo, rasentano il misticismo e hanno al loro interno un codice simbolico preciso che indica appartenenza (mitica o comunitaria) a un ambito che potremmo, pur con una certa resistenza, definire spirituale. Se è esistita una via simile già per i briganti, che nei suoi riti risale indietro di secoli, ugualmente, in un saggio di vari anni fa, il romanziere, sinologo, studioso di iconografia e dei fenomeni esoterici Frédérick Tristan descriveva i rituali e le simbologie criminose delle Sociétés secrètes chinoises.
Frammento di fregio a girali vegetali (XVI secolo) - .
Mentre osservavo a Palazzo Magnani i materiali raccolti nella mostra What a wonderful world, ovvero “La lunga storia dell’Ornamento tra arte e natura” (fino all'8 marzo, con una sede anche ai Chiostri di San Pietro), mi tornavano in mente quelle immagini di criminal tattoo che comunicano aggressività e terrore e sembrano sposarsi a perfezione con la celebre condanna di Adolf Loos: «Ornamento è delitto». In sostanza, in quel saggio del 1908 che ha reso celebre la boutade – oggi possiamo considerarla tale senza negare che avesse (o potrà avere ancora) un senso – Loos intendeva dire che l’ornamento offusca la verità della cose, e dunque in linea razionale la scomparsa dell’ornamento denoterebbe lo sviluppo più alto di una civiltà. Lo stesso Loos scrisse anche che quando nella foresta incrociamo un tumulo «lungo sei piedi e largo tre, forgiato a piramide con la pala, diventiamo seri e qualcosa ci dice: qui è sepolto qualcuno. Quella è l’architettura». In Giappone, per esempio, sono esperti di loculi abitativi, dove non c’è spazio per l’ornamento; ma a battere certe strade furono gli architetti europei funzionalisti fra gli anni 20 e 30 che pensando al “minimo esistenziale” (l’economia al potere e l’arte a seguire) teorizzarono una estetica razionale dove l’unico stile possibile era che non vi fosse nessuno stile.
“Conchiglia”, vetreria Johan Lotz Witwe (1903 c.) - .
Il sardonico architetto americano Philip Johnson seguì l’insegnamento e nel 1932, mentre il funzionalismo imperava sull’architettura moderna, allestì al MoMA, sotto la supervisione di Alfred Barr Jr e la collaborazione di Henry-Russell Hitchcock, una mostra che fece infuriare i razionalisti europei perché dava appunto l’immagine di un nuovo stile internazionale “senza ornamento” ma non meno estetico (o, all’occorrenza, estetizzante) di quelli di cui avrebbe voluto far piazza pulita. Non a caso, lo stesso Philip Johnson fu poi il principale promotore in America del postmodernismo – dove l’ironia e il gioco sugli stilemi esprimeva fronzoli concettuali – ma anche il suo affossatore quando, dieci anni più tardi, al crepuscolo del Novecento, appoggiò il decostruttivismo di Libeskind e Eisenman, Gehry e Koolhaas... E qui forse avrebbe giocato bene nella mostra una sezione strettamente architettonica, moderna e attuale. Domanda: nelle forme boccioniane del museo Guggenheim di Bilbao progettato da Frank O. Gehry quanto è forma e quanto è ornamento? Forse la forma architettonica è quella che riesce ad accogliere altre forme dentro i propri spazi e sulle proprie pareti: il fatto è che Bilbao, a detta di molti, non permette di fare mostre dove le opere non vengano fagocitate dalle forme e dagli spazi del museo. Ergo? Quel museo è una architettura dove la forma rappresenta anche il proprio ornamento e si rende fine a se stessa.
Pluteo con girali vegetali (XI secolo) - .
Questo è uno dei punti su cui discutere a proposito dell’ornamento, come nota anche Claudio Franzoni nel saggio che apre il catalogo (Skira) della mostra. Non è affatto vero che l’ornamento nasca esornativo, ed è falso che l’ornamento sia “inutile” e neghi il principio di “funzionalità” (la natura insegna proprio il contrario). Ovviamente, si deve dare alle parole il loro senso: ogni funzione tende al suo fine. E ogni forma segue la funzione in quanto realizza quel fine. Con Darwin e in parte già da prima (da Buffon? e perché no, dagli Enciclopedisti francesi) la natura ama nascondersi sotto i propri ornamenti. Gli oculi che compaiono sulle piume di certi uccelli, per esempio quelle dei pavoni meravigliose oltre ogni legittima aspettativa, che furono oggetto di disegnatori formidabili e naturalisti come Ligozzi o Aldrovandi, ovvero certe pietre e fossili collezionati dai naturalisti moderni nelle loro wunderkammer; e le geometrie estratte dalle forme naturali – la straordinaria xilografia del Nodo con sette intrecci circolari di Dürer che ha qualcosa di arabeggiante – e così anche i fregi floreali sui capitelli medievali, rilevati da incisori che classificavano forme vegetali e animali nel loro valore sia simbolico sia denotativo delle forme naturali.
Albrect Dürer, “Nodo con sette intrecci circolari” (incisione) - .
Mi sono ricordato di una bellissima scultura in lamiera sbalzata dell’artista Carlo Steiner realizzata negli anni Novanta e intitolata Samarcanda , fatta di fregi orizzontali sovrapposti, che avrebbe degnamente figurato in questa mostra come esempio contemporaneo di ornamento che supera ogni contrapposizione con la forma. Ma anche fra antico e presente. Lo stile floreale o liberty non è forse una evoluzione estetizzante di altre “essenze” naturali che occuparono le ricerche decorative su carte, stoffe, arredi degli inglesi di Arts & Crafts (Morris & C., sulle spalle del gigante Ruskin)? Che tutto questo lo si possa poi ritrovare in contemporanei come Warhol, Arman, fino alle velature stratificate di luce di Daniele Benati, non prova forse che l’impulso alla decorazione è davvero un segno distintivo dell’uomo che ricrea ciò che la natura gli suggerisce? Parlando di Warhol, mi vien da dire che persino le sue serigrafie di incidenti stradali hanno un fondo decorativo che richiama la fatalità dei “novissimi”, una estatica riflessione sulla vita e sulla morte ridotta ai criteri di immanente bellezza tragica.
Pablo Picasso, Pierre Reverdy, “Le Chant des Morts. Poemes” (1948, edito da Tériade) - .
L’ornamento nasce con l’uomo. Se l’architettura segue un canone antropomorfo, nel momento in cui il corpo si riveste anche l’ornamento cresce come un rampicante sui muri e sale fino al tetto. I boschi verticali, in fondo, son povera cosa rispetto agli evergreen della decorazione antica: se la metamorfosi dell’ornamento in valore simbolico ha una patria, questa secoli fa era il mondo orientale, tra Mediterraneo e Asia. I tappeti con forme astratte che richiamano l’albero della vita, le cuspidi arabe, le geometrie iraniane, i ricami zoroastriani della luna e del sole, queste forme che hanno anche nella massima astrazione un valore simbolico visibile ma soltanto a chi ha raggiunto una certa conoscenza, ci devono ricordare che il mondo arabo ci ha insegnato qualcosa anche sul rapporto fra arte e scienza. Se i filosofi e i disegnatori arabi non avessero messo in salvo, facendone copie, i libri di Erone Alessandrino oggi anche la tecnica occidentale sarebbe meno progredita. Ma è proprio quando i sovrani arabi fecero realizzare nel XII e XIII secolo i loro automi che mostrarono come ciò che è massimamente funzionale e meccanico conservi nella sua dimensione ludica il ricordo dell’ornamento come fonte di diletto e di pensiero.
Claudio Parmiggiani, “Deiscrizione” (1972) - .
Matisse – del quale è esposto il solito libro Jazz, ma che ha raggiunto il distillato dell’ornamento nei papiers découpé eseguiti nell’ultimo decennio della vita, dove la scultura si trasforma di segno nel taglio di fogli di carta colorata – aveva chiaro che l’ornamento non è un sovrappiù che spegne la forza originaria delle forme. L’ornamento è un coagulo dove lo slancio spirituale della forma si rende visibile nella sua sostanza allegorica e simbolica. È parola e linguaggio. Canto della joie de vivre.