Agorà

L'inchiesta. Oprea Il Wisenthal di Romania

Marco Roncalli sabato 24 maggio 2014
​Ai tempi della dittatura, lui, studente di archeologia, era uno dei pochi dissidenti in una Romania trasformata in un’enorme prigione politica dove milioni di persone vivevano prive della libertà, molte delle quali scaraventate dentro vicende infernali ancora in larga parte sconosciute. Storie che, da tempo, lui si è impegnato a documentare e a raccontare. Storie delle quali restano mucchi di ossa nascosti sotto l’erba nei villaggi: le ossa che lui, archeologo di formazione e storico, riporta alla luce del sole: chiedendone la benedizione e un nuovo posto all’ombra di una croce. Lui è Marius Oprea, madre religiosa e di estrazione contadina, padre ufficiale dell’esercito. Nel 1989, l’anno della sanguinosa rivoluzione romena, Marius aveva venticinque anni e oggi, che ne ha il doppio, lavora per capire e far capire cosa è successo al suo popolo. Guidando un istituto per la ricerca sui crimini perpetrati dall’era di Gheorghiu Dej, della persecuzione e del sistema concentrazionario, fino al regime di Ceausescu; dicendosi convinto che «la risposta alle tante domande su quello che è stato il regime comunista in Romania è sotto l’erba». «Sarà anche macabro – racconta – ma tutte le volte che vado a tenere delle conferenze ripeto sempre: "Badate a dove andate a fare il pic-nic perché sotto i vostri piedi potrebbe esserci un morto. Un morto sepolto senza alcuna croce"». Marius parla delle vittime della Securitate, fondata già nel 1948, forse la più brutale polizia segreta del blocco orientale: ogni villaggio della Romania, spiega, ne ha qualcuna: si tratti di appartenenti a quella che fu la Lega Nazionale Cristiana, conosciuta come la Guardia Bianca, largamente smantellata già nel 1949, di sacerdoti e persino vescovi greco-cattolici spirati nei sotterranei del ministero degli Interni a Bucarest, nel carcere di Sighet o in altre prigioni segrete del regime, ma poi sepolti in luoghi sconosciuti. La storia di Marius Oprea, praticamente ignorata in Italia (se ne parlò solo quando il premio Nobel per la letteratura Herta Müller lo sostenne pubblicamente quando si provò a fermarne le indagini) è ora raccontata nel libro-inchiesta del giornalista triestino Guido Barella La tortura del silenzio (Edizioni San Paolo, pagg. 176, euro 15) che, a venticinque anni dalla caduta del regime in Romania, racconta l’operato di quello che Paolo Rumiz sulla presentazione di copertina definisce «il Simon Wiesenthal rumeno». Libro di un giornalista, non di uno storico, preoccupato di cogliere sentimenti e indicare valori più che ricostruire e interpretare dinamiche politiche complesse, coinvolgendo accanto a Oprea «archeologo della contemporaneità» (che tra il 1998 e il 2000 è stato consigliere del Presidente della Repubblica Emil Costantinescu, tra il 2005 e il 2008 consigliere del Primo ministro Calin Popescu Taiceanu sui temi della sicurezza nazionale), protagonisti della recente storia della Romania. Come il procuratore Dan Voinea o il senatore e regista Sorin Iliesiu. Il primo è l’uomo che nel Natale del 1989 sostenne la pubblica accusa contro Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, chiedendone «la condanna a morte per i reati di genocidio, destabilizzazione dello Stato, sabotaggio dell’economia, uso di organismi militari per intaccare il potere dello Stato», come dichiarò alla corte nell’aula del tribunale militare straordinario allestita a tempo di record nella caserma di Târgoviste, e che subito dopo ha diretto l’équipe che analizzava i dossier relativi ai morti nel corso della rivoluzione e delle marce dei minatori. Il secondo è uno degli intellettuali più vicini a Oprea, figlio di un sacerdote greco-cattolico clandestino, la cui curiosa iscrizione al Partito comunista fu in realtà la storia di una fuga fallita. Ma non è tutto. Queste pagine provano a spiegare come in quel Natale 1989 la fucilazione del dittatore e della moglie "ammazzati come bestie selvatiche" (per rubare il sottotitolo di un libro di Grigore C. Cartianu), non mise certo fine al regime: né allora, né negli anni seguenti. Fin dai giorni della rivoluzione, il problema dei vertici del partito fu di non essere giudicati e puniti per i crimini del comunismo, perché il potere e il denaro dovevano (leggasi privatizzazioni) rimanere nelle loro mani. Da qui norme inspiegabili come quella che impedisce gli accessi agli archivi della Securitate per cinquant’anni. E di fatto l’impunità per una cricca che si tramanda pezzi di potere, che svende pezzi di Paese, che tiene sottopagati i lavoratori (anche a vantaggio del capitalismo di casa nostra). Leggere questo libro invita a sostare sul passato, ma pure su un presente abitato da troppe persone «rinate onorabili» dopo il 1990, anno in cui i membri della Securitate hanno portato le loro uniformi dai sarti per farne abiti all’ultima moda.