La mostra. L'Opera dei Pupi con Mimmo Cuticchio: «Sono i mille volti dell'umanità»
Pupi siciliani in mostra al Palazzo del Quirinale (Francesco Ammendola)
La tradizione non è mai uguale a se stessa. Cambia col fluire delle generazioni. Si rinnova eppure resta comunque tradizione. Mimmo Cuticchio è il massimo esponente della tradizione dei pupi siciliani. Lui, faccione incorniciato in barba e capelli da burbero, evidenziato da uno sguardo profondo e limpido, che mostra una fede solida e un cuore di bambino, tiene a sottolineare questo aspetto, che poi fornisce il titolo alla mostra "L’Opera dei Pupi. Una tradizione in viaggio", allestita a Roma nel Palazzo del Quirinale, fino al 3 dicembre. «La tradizione – dice – è come l’acqua di un fiume. Anche se scorre sempre sullo stesso letto non è mai la stessa».
Mimmo Cuticchio è un “oprante” (regista? imprenditore teatrale?) erede di opranti alla quinta generazione. Quando nel 1973, invece di abbandonare le scene come facevano tutti i figli d’arte suoi colleghi, ha scelto di rilanciare l’Opera, si è aperta per lui un’avventura del tutto sconosciuta. Una realtà nuova «che ha il cuore e motore» nel suo teatro di via Bara dell’Olivella a Palermo, ma che è stata capace di riproporsi non più soltanto nelle contrade siciliane, come facevano gli opranti girovaghi di un tempo, ma nei teatri di tutto il mondo, interpretando il vecchio e il nuovo e anche miscelando, in nuove idee da palcoscenico, attori uomini e attori pupi.
Grazie a lui, l’Opera che era morta, perché non c’era più il contesto culturale al quale si rivolgeva e per il quale fungeva da cinema, teatro, ritrovo e cantastorie, non è semplicemente rinata, si è trasformata per rispondere alle esigenze del nostro tempo. Nel “cartello” tipico di un oprante fra ’800 e secondo dopoguerra del ’900 l’intera epopea di Orlando e dei suoi paladini si compiva in 300 “serate”. Ciascuna, col suo titolo, la sua locandina dipinta, la sua storia con decine di personaggi (Rinaldo riceve le armi, Morte di Astolfo, Orlando suona il corno olifante, Tradimento di Gano, Morte di Angelica...) e i suoi striscioni sottopalco: in mostra ce n’è uno, opera di Giovanni Salerno, che raffigura la Battaglia dei 20 contro 20 e ricorda da vicino il bassorilievo del famoso Sarcofago Ludovisi di Palazzo Altemps. Ogni “serata” durava due ore. I pupi erano (sono) mossi da almeno sei “manianti” mentre l’oprante dava voce a tutti i personaggi.
Insomma per qualunque paese o città dove veniva montato, il teatrino dell’Opera era molto più della televisione. Oggi tutto questo sarebbe impossibile. Eppure nel teatro di Cuticchio continua a vivere come il nuovo che sembra l’antico. Ha riadattato i canovacci. Ha rispolverato le storie dei pupi che raccontavano la “Sicilia del popolo” all’epoca dei Borboni, con “maschere” come quelle di Nofrio e di Virticchio che ricordano da vicino la Commedia dell’arte. Ha riproposto un classico puparo come Vita amori e morte di Genoveffa di Brabante e ne ha scritti di altri come la Storia di San Francesco, con personaggi attuali che si aggiungono di anno in anno e che sono ormai sessantacinque.
Si comprende allora come il viaggio della tradizione dell’Opera venga inteso da Mimmo Cuticchio nel senso autentico del rinnovamento che è proprio di ogni vita compiuta. Lui stesso lo assimila al vivere e al morire dei suoi pupi. «È l’esplorare nuovi percorsi teatrali; inoltrarsi nei sentieri della propria coscienza, ma anche avventurarsi in nuove storie con nuovi personaggi e nuovi canovacci». Un po’ come Pirandello, che assimilava gli uomini ai pupi, mossi da fili invisibili, dice: «I pupi, come noi, sono dei pellegrini nella vita», con quel di più che viene dall’affrontare la strada con la forza dell’ideale, della moralità cavalleresca, della fede in un aldilà che apre a nuovi scenari e a nuovi racconti.
Ma soprattutto, il viaggio dell’Opera, e qui Cuticchio si apre in un gran sorriso, lontanissimo dalla visione pirandelliana della vita, è la capacità «che dovrebbe essere di ogni persona di guardare indietro per riscoprire e rivivere il bambino che è in noi». Non come scontato o abusato ritorno a una immaturità adulta, ma come intima riscoperta dello stupore per la vita e per quelle piccole ingenuità che spalancano il cuore alle verità più profonde e... “vere”.
Se parli con questo oprante dalla vitalità inesauribile e hai la fortuna di vedere a tu per tu come fa muovere i suoi pupi (pesano dai 7 ai 15 chili), come riesce a dar loro voce nelle infinite sfumature dei tanti personaggi, come produce i rumori di scena con strumenti antichi (la macchina del vento, la macchina della pioggia, il legno che fa il rumore dei cavalli, il corno olifante del paladino Orlando, la pianola a cilindro con i registri di dieci o dodici musiche di scena, ecc.); se lo vedi fare tutto questo e osservi come si diverte, capisci che l’Opera dei Pupi è filosofia, un’artistica e realistica filosofia di vita.
I pupi sono l’arte di mettere in scena i mille volti dell’umanità con libertà di critica, ma totale rispetto di ogni singolo ruolo, anche nelle sfumature caratteriali. Orlando è Orlando, Rinaldo è Rinaldo, Angelica è Angelica. Anche Gano di Magonza, il traditore, resta Gano di Magonza. Se c’è giudizio morale è solo sulle loro opere, sull’onestà e sulla capacità di portare aiuto ai maltrattati. Perché l’Opera è scuola di vita e al coraggioso che si è speso per gli altri, spetta il premio. Se non è il bacio della dama è il premio eterno: lo portano gli angeli, che dall’alto scendono accanto al corpo disteso del pupo eroe, srotolando la colorata tela della sua anima per accompagnarla in cielo in un sognante e sicuro effetto scenico.
Una tradizione rinnovata che Cuticchio conserva gelosamente. Ogni nuovo pupo viene scolpito e abbigliato a mano con le tecniche di sempre, che la mostra al Quirinale illustra alla perfezione: per fare la corazza di un paladino occorre tagliare almeno 44 pezzi di lamiera e saldarli uno a uno e poi aggiungere le decorazioni. «Ma non perché la tradizione è un bel folklore a uso e consumo dei turisti, ma perché la tradizione che vive e si rinnova è la migliore interprete di un popolo e della sua storia».
Ed è curioso constatare che negli abiti e nelle armature dei pupi con i quali l’Opera racconta la Chanson de geste si ripete più volte il fregio della conchiglia del pellegrino. Non è solo questione di fede cristiana sulla strada che da Roncisvalle porta a Compostela. Orlando, come il Moro e le decine di altri personaggi con le loro storie, conclude Cuticchio, «sono l’emblema dell’uomo alla ricerca della sua verità, dell’uomo che sa di avere un ruolo nella vita e lo interpreta fino in fondo, senza infingimenti. Per certi versi non importa quale sia la meta, ciò che conta è che ci sia e sia consapevole». E, per tornare a Pirandello, non è cosa così comune.