Dibattito. Quasi un manifesto per l'opera barocca in Italia
Evaristo Baschenis Strumenti musicali e tendone rosso, 1670 circa, particolare. Bergamo, Accademia Carrara
Tra Sei e Settecento l’Italia in Europa è la musica. Da Napoli e da Venezia partivano professionisti impiegati lungo un arco che da Madrid saliva a Londra attraversava il mondo tedesco per terminare a San Pietroburgo. E da tutta Europa si scendeva nello Stivale per ascoltare musica. Strumentale, ma soprattutto vocale. L’allievo ha oggi più fortuna dei maestri, ma le opere italiane di Mozart sono opere 'napoletane'. Per rendersene conto basta ascoltare Traetta, Jommelli, Porpora, Pergolesi, Hasse (non importa la nascita, è la città a fare l’arte) su fino a Cimarosa e Paisiello. Figure che si innestano nel secolo precedente costellato da giganti come Monteverdi, Cavalli, Alessandro Scarlatti, Stradella…
Fino a non molto tempo fa soltanto nomi nelle storie della musica, oggi l’occasione di ascoltare questi autori è meno remota. Ormai le fondazioni liriche e i teatri di tradizioni presentano in cartellone almeno uno o due titoli barocchi, soprattutto Haendel e Vivaldi. Realtà come il Festival della Valle d’Itria si sono dedicate intensamente e con successo alla riscoperta del repertorio, diventando un appuntamento obbligato per gli appassionati. Il Roma Festival Barocco è una esperienza importante. Il pubblico del barocco è in espansione, è (relativamente) giovane, è fidelizzato e soprattutto chiede continuamente novità. In Italia meridionale si sono moltiplicati i festival dedicati ai compositori della 'scuola napoletana', ma la cui provenienza è trasversale a tutto il Sud: Jommelli/ Cimarosa ad Aversa, Traetta a Bitonto, Leonardo Leo a San Vito dei Normanni, Leonardo Vinci a Crotone, Paisiello a Taranto, Francesco Durante a Frattamaggiore... Questi festival, che nei giorni scorsi hanno istituito tra loro un forum permanente, sono un segnale chiaro rispetto all’interesse verso un fenomeno – ma, al di là di ogni giudizio qualitativo, bisogna anche annotare la domanda su quale sia il loro effettivo impatto sul movimento o quanto riescano a superare la parcellizzazione localistica. In generale, l’attuale dispersività delle iniziative è un limite determinante.
Alla musica barocca e all’opera in particolare in Italia serve un “salto di sistema”. Per il nostro paese è un potenziale culturale fortissimo. L’Italia è in una condizione privilegiata. Ha sia protagonisti affermati su scala internazionale sia giovani di talento (ormai la prassi esecutiva barocca è entrata stabilmente nei conservatori); ha i luoghi, a partire dai teatri che del barocco sono espressione principe; ha il patrimonio, ossia i manoscritti: archivi e biblioteche costituiscono un giacimento enorme, che all’estero ci invidiano. Il lavoro sulle fonti sta dando risultati. Nomi che fino a poco tempo fa apparivano come dei carneadi emergono con sempre maggiore insistenza per attestarsi nel repertorio internazionale.
Si tratta di dare al barocco un progetto culturale che possa avere anche un impatto economico, e questo può accadere solo con una proposta di qualità, un lavoro di rete e un quadro istituzionale che ne prenda coscienza e ne agevoli lo sviluppo. La Francia dal 1987 ha il Centre de Musique Baroque de Versailles, che ha come obiettivo la ricerca, l’edizione e la diffusione del patrimonio musicale francese e finanzia concerti, produzioni teatrali, insegnamento, incisioni. L’Italia non ha una struttura analoga, ma se la meriterebbe. Più che una fondazione lirica dedicata, sarebbe infatti opportuno valorizzare le migliori esperienze in atto. Il Mibact da qualche anno promuove con successo l’Italian council, un programma che attraverso un bando sostiene l’arte contemporanea: acquisizioni, produzione di opere, partecipazione a mostre internazionali, residenze di ricerca all’estero, borse di studio. Una struttura agile, qualificata e meritocratica di questo tipo non potrebbe essere ideale anche per uno sviluppo organico della musica barocca?
Occorre inoltre riallacciare una unità culturale oggi dispersa. Musica, arti visive, teatro convivevano sullo stesso piano come un unicum estetico. Oggi valorizziamo al massimo l’epopea visiva e spaziale che va da Guercino, Bernini e Borromini a Tiepolo e Juvarra, ma ci manca la controparte acustica. È una valorizzazione zoppa, anzi sorda. La riforma Franceschini attraverso l’autonomia ha conferito ai musei la possibilità e gli strumenti per un approccio olistico (e quelli configurati in fondazioni di diritto privato li hanno da tempo). Perché non attivare residenze d’artista (pratica ancora troppo desueta in Italia) che coniughino ricerca e produzione, riattivando l’unità delle arti propria del barocco?
Ci sono musei con una vocazione più spinta in questo senso, come Galleria Borghese a Roma, la Reggia di Caserta (che sul modello di Versailles ha un bellissimo teatro di corte), la Pilotta a Parma, con il Teatro Farnese. A Modena la Biblioteca Estense, parte delle Gallerie Estensi, possiede uno dei più importanti archivi di musica sacra del Seicento grazie al mecenatismo di Francesco II d’Este, che per ascoltarla fece costruire appositamente la chiesa-auditorium di San Carlo Rotondo (purtroppo distrutta).
Un’altra strada, infine, può essere infine lo sviluppo di un festival dedicato all’opera barocca dotato di massa critica, magari incardinato su una città o una scuola in particolare ( Venezia, Napoli, Roma…). I festival dedicati ai maestri del melodramma, a partire dal Rof, hanno insegnato la strada: il successo (di pubblico e di critica) passa attraverso la ricerca e l’ampliamento del repertorio. Le platee sono cambiate, sono cresciute culturalmente. L’offerta produce la domanda, l’investimento culturale genera economia. Serve un grande festival barocco che saldi musicologia e performance. Monteverdi e Cavalli, Scarlatti, Haendel, Vivaldi possono essere un traino efficace presso un pubblico più ampio per fare emergere definitivamente un continente musicale non solo vivo ma spesso anche di sconcertante attualità.