Intervista. La rivoluzione culturale di Olivetti
«Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». Così Adriano Olivetti riassumeva il senso della Fabbrica-Comunità e l’utopia (possibile) di un’economia che si muovesse verso un fine ben più alto dello sterile e crudo indice del profitto e aprisse invece la strada a un cammino di civiltà e di elevazione per tutti. Nello spirito dell’«umanesimo integrale » professato da Jacques Maritain che per l’imprenditore di Ivrea fu un fondamentale punto di riferimento ideologico. «La sfida di mio padre si è giocata su questo campo: su un radicale cambiamento di mentalità rispetto al mito del progresso e del profitto a tutti i costi sulla pelle dei lavoratori. Al contrario, la fabbrica era considerata uno strumento di crescita del territorio, per migliorare le condizioni di vita di tutti, con un welfare su misura, servizi, educazione e appunto, cultura», rilancia Laura Olivetti, figlia di Adriano, oggi alla guida della Fondazione che porta il suo nome, fondata nel 1962, due anni dopo la prematura scomparsa dell’imprenditore. «La fabbrica- comunità era il tentativo di una grande innovazione culturale, per le imprese, i lavoratori e tutti i soggetti attivi del territorio. E su questo terreno sento il dovere di continuare a testimoniare l’esperienza di mio padre». Il Salone dei 2000 alla Ico di Ivrea (Foto Francesco Mattuzzi)
Olivetti è morto quando Laura aveva appena nove anni. Per lei la famiglia era la «Ditta». Un tutt’uno. «I miei ricordi arrivano ovviamente fino a un certo punto. Nel tempo ho ascoltato i racconti di chi è stato sempre vicino a mio padre; ho letto i carteggi, ho scavato in archivio e alla fine credo di aver ricostruito pienamente la sua figura. È stato un esercizio importante per riavvicinarmi a lui e alla mia famiglia. Prima di occuparmi della fondazione facevo altro, ero una ricercatrice di psicologia. Fu verso l’inizio degli anni Novanta che una serie di circostanze fecero scattare in me la sensazione che occuparmi della Fondazione fosse un obbligo morale. Erano gli anni dei grandi cambiamenti per l’azienda e avevo paura che la Fondazione potesse ridursi a una vestale del passato. Ho cercato allora di rimettere in sesto questa istituzione, per mille ragioni rimasta silente, e diffondere il valore culturale della storia di Olivetti. Poi nel luglio del 2003 il nome Olivetti venne fatto scomparire dallo scenario dell’impresa italiana, così la Fondazione è oggi di fatto l’unica realtà legata a triplo filo con quell’esperienza e deputata a valorizzare questi asset intangibili che si rivolgono al capitale umano».
In questa direzione va il lavoro divulgativo delle Edizioni di Comunità (dirette con vera passione dal figlio di Laura, Beniamino de’ Liguori Carino), con la pubblicazione dei discorsi, degli scritti e del pensiero di Adriano Olivetti. E poi c’è tutto il lavoro svolto nei territori, in particolare nei luoghi legati alla storia di Olivetti, per creare opportunità di crescita sociale: «A Roma, a Corviale, abbiamo coinvolto negli anni gli abitanti in operazioni che andavano dagli orti urbani alla creazione di Radio Cordiale – dice Laura Olivetti –. Abbiamo svolto un grande lavoro nel carcere di Bollate, con l’apertura di un asilo realizzato con criteri innovativi, dentro l’istituto ma aperto al pubblico. Abbiamo svolto ricerche sullo stato dell’impresa nel canavese e ricostruito tutta la vicenda di mio padre in Basilicata, a Matera, che nel 2019 sarà capitale europea della cultura. Qui mio padre, negli anni Cinquanta portò avanti una delle sue scommesse più alte, insieme ad altri intellettuali e professionisti: fare della capitale dell’Italia contadina, nel Mezzogiorno descritto da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli un’altra Ivrea. Adesso stiamo chiudendo una convenzione con il comune di Pozzuoli, un altro sito simbolo della storia di Olivetti, per la diffusione del suo pensiero fra i giovani». Un impegno, quello della Fondazione Adriano Olivetti che oggi pomeriggio sarà premiato con il riconoscimento “Ombra della Sera” per la cultura su segnalazione della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, nell’ambito del Festival Internazionale del Teatro Romano di Volterra, insieme ad altre personalità dello spettacolo, dell’arte e del giornalismo. L’Unesco e la Lista dei siti Patrimonio dell’Umanità che sognano Olivetti e Ivrea, la cui candidatura è stata ufficializzata nel 2012 al termine di un lavoro di ricerca e valorizzazione avviato già nel 2008 con il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della Società Olivetti. «Una traccia lunga quasi un secolo ha legato il nome Olivetti a Ivrea e al territorio canavesano unendo le vicende dell’impresa alla storia di questa terra – spiega Laura Olivetti, presentando il dossier –: “Ivrea, città industriale del XX secolo” pone all’attenzione dell’Unesco il modello di città industriale, elaborato a partire dagli anni Trenta da Adriano Olivetti e diventato poi progetto di comunità alternativo a quello proposto dallo sviluppo industriale del XX secolo. L’esempio di Ivrea rappresenta un’opportunità per sollecitare importanti riflessioni sui processi di innovazione sociale e di governance del territorio». Di fronte alla crisi generata da una economia del profitto e della finanza speculativa e al senso di smarrimento generale che avvertiamo, la comunità, le fabbriche del bene, la città dell’uomo, la grande utopia inseguita da Adriano Olivetti sono da qualche anno un faro per chi sostiene un’economia dal volto umano. Il riconoscimento Unesco sarebbe la “certificazione” che tutto questo rappresenta un patrimonio dell’umanità. Ma questo ovviamente non basta. «Le sue erano idee troppo innovative, e per questo aveva anche molti nemici che lo osteggiavano fortemente. Quando è scomparso è stato anche dimenticato. Da qualche anno, con la crisi che stiamo vivendo, c’è una riscoperta». Se chiediamo a Laura Olivetti quale degli insegnamenti di suo padre si sente di indicare come “inizio”, la risposta è un invito a guardarci dentro, fino in fondo: «Mio padre ha fatto quello che ha fatto, perché era una persona buona. Veramente buona. Può sembrare una diminutio, ma è il cuore della sua testimonianza». Adriano Olivetti era un testimone autentico e per questo oggi le sue idee sono credibili. Le sue idee partivano da un animo nobile. «Ogni esempio è irripetibile – continua –: Ivrea è Ivrea. Ma ci sono altre realtà e imprese in Italia che operano con responsabilità sociale e una straordinaria attenzione al territorio». Il sogno di Olivetti può continuare.