Idee. Ogni messaggio è sotto la legge del baratto social
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Ho uno spiccato carattere antisocial. I like mi danno l’allergia. Per non parlare di poke, link in bio, creatorquesto, creatorquello. Non posso non esserci, nei social, così mi dico, per avere sentore di cosa succede tra memorie farlocche, troll di ogni genere, pubblicità imbarazzanti. L’idea è che prima o poi ne farò finalmente a meno anche se è molto più probabile che i social faranno a meno di me registrando puntualmente il mio disfattismo che non giova al racconto dopato oltre misura della grande community inclusiva e politicamente corretta dove fa comodo. Il malanno, che certamente condivido con altri, non ha nulla a che fare con repulsione e rifiuto per le tecnologie, da cui sono profondamente coinvolto. La ragione è un’altra. I vari dispensatori di vite digitali che per una forma di osmosi viziosa sono diventati unità di misura anche per la vita in carne e ossa, sono impossibilitati a generare qualunque tessuto pur embrionale di un presunto nuovo umanesimo genuino da piattaforma. La ragione è insita nella architettura grazie a cui esistono e di cui si servono. Nello strumento origina invariabilmente parte integrante dell’opera che contribuisce a creare. Se si esclude uno storytelling fuorviante che giova unicamente a chi tenta di vendere servizi di ogni genere, la struttura social è intimamente, profondamente, irrimediabilmente manipolatoria. Lo si può accettare tranquillamente, a patto che quella sia la partita cui si vuole giocare. Ogni tanto mi diverto a navigare tra gli aggiornamenti dei vari tutorial, metodi per ottenere visibilità, attirare follower, fare crescere la tua azienda, misteri dell’algoritmo che decide cosa e come, definendo un’etica del baratto che a causa dei numeri diventa istantaneamente il valore di riferimento. È perfettamente evidente che l’artificio sia così strutturalmente invasivo da annullare qualunque “messaggio” si possa tentare di metterci dentro. Il contesto fa sì che le parti vengano ribaltate. Non è il contenuto a servirsi dei mezzi per farlo circolare, ma sono i mezzi ad utilizzare il qualunque contenuto per esercitare la propria funzione. I presunti contenuti sono l’abbellimento marginale irrimediabilmente compromesso dalla rete di espedienti che dovrebbero veicolarlo e invece ne determinano la natura. Nei social ogni “significato” viene transustanziato nella surroga organica alle metriche dei post perché quella è l’architettura di umanità che i social servono veramente. Va tenuto in conto che i social, al di là di una prima vaga intuizione destinata al macero delle buone intenzioni che lastricano da sempre gli inferni laici e religiosi (per chi ci crede), devono generare unicamente profitto. Il quanto è la categoria che decide il quale, non si sfugge. La logica è talmente pressante da avere influenzato pesantemente quasi tutti i media con le loro scelte editoriali a favore di un mercato decisamente privo di ogni etica che non sia il ritorno economico o qualcosa di commerciabile comunque. Chiunque creda di poter percorrere le vie dei social per migliorare il mondo, generare empatia, trasmettere un qualunque credo, o non è in buona fede, e di fatto si serve di una mission dichiarata come cavallo di troia dei poveri per soddisfare il proprio desiderio di visibilità, o è un naive la cui unica responsabilità è l’assenza di consapevolezza. Per generare empatia bisogna creare contenuti accattivanti, legittimando una finzione che contamina alla base tutto ciò che si vuol comunicare. Non è una novità, si potrà dire. Le cose umane sono sempre state animate dal motore potente della manipolazione. Ma nelle manipolazioni umane esercitate faccia a faccia l’odore della paura, la intensità di uno sguardo, le conseguenze stesse, hanno sempre esercitato una influenza potente, bilanciando la forza devastante della finzione. Nei social non è cosi, la possibilità senza precedenti di dissimulazioni perfette anche portata all’estremo non genera alcun antidoto. Se si devono vendere scarpe o utensili da giardino la cosa non è così impattante, fa parte di un gioco le cui conseguenze sono di relativo interesse. Differente è quando si pretende di evangelizzare, attrezzati con gel e modi da influencer. La rinnovata ortodossia digitale ha i piedi d’argilla. E non mi riferisco unicamente all’apparenza dei novelli profeti usa e getta. Mi riferisco all’impianto generale della rappresentazione, ai modi e agli strumenti di cui si serve. Quel modo di essere giovani tra i giovani non è secolarizzazione, è svendita al miglior offerente che ricorda i saldi radicali in vista della chiusura di un negozio. Non abbiamo bisogno di empatia istantanea barattata per contenuti marmellata. L’empatia è altro, il cambiamento è altro. La rinuncia all’artificio porta inequivocabilmente su una strada difficile, di solitudine e incomprensione, la strada stretta e obbligata da percorrere, a meno di non immaginare che parlare all’uomo sia come spacciare panettoni umanitari e salvifici.