Dopo che per giorni, anzi settimane, un po’ tutti si sono esercitati nell’invettiva democratica per lo scandalo di della Cina ospite d’onore della Buchmesse di Francoforte (come se la cosa fosse più eclatante dell’organizzazione dei giochi olimpici a Pechino. O dell’Arabia Saudita ospite d’onore insieme ad altri nel 2004) è arrivato il giorno che doveva essere dei dissidenti – tra una tavola rotonda sul Tibet, una presentazione del caso di Gao Zisheng, avvocato e attivista dei diritti umani imprigionato la scorsa primavera ecc. – e che invece si è rivelato giorno dei Nobel. Sul gigante asiatico è infatti calato il giudizio di tre letterati per antonomasia di Cina e Germania: gli unici possono vantarsi di avere vinto l’ambito milione di euro messo in palio dall’Accademia di Svezia: Gao Xingjian, Günter Grass e Herta Müller. «Ammiro gli oppositori [al regime], quelli che sono qui e quelli che non sono potuti venire – ha detto ieri la Müller, in un’apparizione nel salotto tv allestito dalla rete tedesca Zdf, a metà tra il padiglione italo-spagnolo e quello francese –, so abbastanza bene cosa vuol dire esprimere il proprio pensiero in un Paese dove per farlo si viene perseguitati, e dove si può pagare con la prigione o con la vita. Come si può distruggere velocemente la vita di una persona, solo perché ha voluto dire quello che pensava!». Per rendere più esplicito il proprio pensiero Müller ha poi fatto visita allo stand di «Epoch Times», il giornale in più lingue con sede a New York ed espressione di Falun Gong, il movimento spirituale contro cui il regime di Pechino ha ingaggiato da anni una lotta durissima (accusandolo, tra l’altre cose, di essere uno strumento di destabilizzazione diretto dall’estero). Uno a zero per il fronte degli anti-cinesi insomma.Poi è toccato a Günter Grass, che ha sorpreso non pochi ammiratori, che si aspettavano magari parole ancora più dure di quelle della collega. Grass – che ha parlato in realtà giovedì a un convegno a Göttingen, rimbalzato ieri sui giornali – ha difeso la scelta di chi ha voluto concedere l’invito d’onore alla Cina. «Conosciamo gli abusi della Cina – ha detto lo scrittore 82enne – e dovremmo denunciarli. Ma nel fare ciò non dobbiamo ignorare i nostri abusi, il nostro malcostume e dobbiamo denunciarli». Dopo di che il premio Nobel è partito con una filippica su una Germania decadente e piagata dal malaffare (venisse un po’ più a sud...): «La Repubblica federale è diventata un Paese contaminato dalla corruzione… siamo giustificati a rivolgere critiche a un Paese come la Cina solo se siamo pronti a chiamare per nome l’orrendo malcostume del nostro Paese». Nemmeno il vice-presidente della Repubblica popolare cinese, che ha inaugurato martedì la Buchmesse, avrebbe saputo fare e dire di meglio: questo grosso modo il commento di un giornalista teutonico, nella centro stampa della Buchmesse. Insomma, uno a uno tra i due fronti "Cina sì" e "Cina no".Per questo era ancor più atteso, per il possibile spareggio, l’intervento di Gao Xingjian. Anche lui premiato nel 2000 col Nobel per la letteratura. Scrittore drammaturgo e pittore; in esilio in Francia dal 1987 – un anno dopo aver subito la cesura del romanzo
L’Altra riva e dopo essere passato anche per i campi di rieducazione maoisti – Gao ha i titoli e l’autorevolezza come pochi per parlare della libertà di parola in quello che resta, più che mai, il suo Paese. Anche più del suo interlocutore dell’altra sera, Yang Lian, poeta, passato anche lui per la rieducazione forzata durante la Rivoluzione culturale, e nel 2001 tra i fondatori del centro "Pen" cinese (ovvero del ramo c cinese dell’omonima un’associazione, fondata a New York, che si occupa di sostenere scrittori alla presa con censure e persecuzioni varie). Bene, dopo aver volato per quasi un’ora sulla lingua e traduzione, su ispirazione e creatività, dopo aver citato Goldoni e Shakespeare, provocato più direttamente sul tema politico, Gao ha portato la sua confuciana stoccata: «Non c’è una libertà illimitata nella vita. Ci sono le dittature, e tutti sappiamo cosa sono, ma non dobbiamo dimenticarci che anche nella società normale, libera, non abbiamo mai una libertà assoluta. La società, la mentalità dominante politically correct restringe il nostro pensiero». Come a dire: giusto, giustissimo ma anche in fondo semplice alzare la voce con violazioni tanto clamorose come quelle che avvengono in Cina. Più complicato farlo contro le "restrizioni" culturali – sottili, eleganti – che avvengono in Europa. Ma anche nella liberale Buchmesse. Sfida "Cina sì", "Cina no" rimasta inchiodata a una sorta di pareggio, quindi. Dando ragione, in un certo senso, a quello che diceva Jurgen Boos, direttore della fiera, all’inizio dei lavori: della Cina si può pensare tutto ciò che si vuole, dal punto di vista della cultura. Una cosa, ormai, non è più possibile fare: ignorarla.