Filosofia. Roger Scruton: l’Occidente e la bugia della globalizzazione
Il filosofo Roger Scruton a Roma nel 2009 in occasione del convegno internaizionale “Dio oggi . con lui o senza di lui cambia tutto”, promosso dal Progetto culturale della Cei
Parafrasando un suo recente titolo, Roger Scruton è convinto che Onu, Ue, Wto e le varie agenzie istituzionali transnazionali siano "false speranze" (vedi il suo saggio Del buon uso del pessimismo, Lindau). Il filosofo inglese, noto per il suo profilo conservatore, sente ormai nell’aria Il bisogno di nazione (Le Lettere, pp. 98, euro 10) rispetto alla melassa globalizzante che sta cancellando differenze, culture, popoli, sovranità. Il docente dell’Institute for the Psychological Sciences (Virginia, Usa) risulta un no global di destra filosoficamente stimolante.
Lei rilancia il ruolo della nazione di fronte allo strapotere delle istituzioni sovranazionali. Non teme di passare per nazionalista?
«La gente confonde sempre la difesa della nazione con quella del nazionalismo. Assomiglia al riflesso automatico dell’Unione europea a qualsiasi tentativo di difendere la sovranità nazionale contro la burocrazia di Bruxelles. Nel XIX secolo i momenti nazionalisti sono stati spesso violenti (come in Italia) e ideologici, con marce, bandiere, falsi eroi e spargimenti di sangue. Ricordiamoci che tutto questo è iniziato con la Rivoluzione francese e la chiamata "della Patria". Ma la difesa dello Stato-nazione non è niente di questo».
Cosa significa?
«Semplicemente la difesa della sovranità territoriale, dei confini, del quartiere, dei costumi, così come della democrazia e del ruolo della legge. Per definizione non può esistere una democrazia transazionale e il ruolo della legge imposto dai tribunali europei rimane una caricatura della legge. Democrazia e ruolo della legge possono esistere solo dentro i confini di uno Stato nazione definito».
Lei cita Kant e il suo progetto "per la pace perpetua". Sostiene che l’Onu non è tale, visto che raggruppa anche Stati non democratici. Come vanno cambiate le Nazioni Unite?
«L’Onu è naturalmente deficitario visto che assegna la stessa credibilità e legittimazione ai tiranni e ai mafiosi e pure ai leader eletti nelle democrazie. Non è possibile prenderlo sul serio: come si fa a considerare autorevole un’organizzazione che nominò l’allora dittatore libico Gheddafi a capo della sua Commissione sui diritti umani? L’unico modo per l’Onu di cambiare consiste nel muoversi verso una direzione democratica e preoccuparsi di quei problemi per i quali le sue decisioni sono assolutamente necessarie per il benessere dell’umanità. Questo significa cambiare rotta per tutte quelle superflue e costose agenzie (come l’Unesco) dove tiranni e bulli possono atteggiarsi come rappresentanti di popoli che mai li hanno eletti».
Benedetto XVI ha parlato, facendo eco a Giovanni Paolo II, di un certo "odio di sé" dell’Europa, soprattutto rispetto alle sue radici cristiane. Come si giustifica quella che lei chiama "oicofobia" del Vecchio Continente?
«Quello che Giovanni Paolo II chiamava "odio di sé" io lo definisco "cultura del ripudio". Noi europei veniamo da due guerre che ci hanno causato un grande senso di colpa; abbiamo però anche un’incredibile eredità di civiltà. Ebbene, molte persone sono riluttanti nell’assumere questa eredità e si rifugiano nella colpevolezza. Questo succede in particolare alla sinistra dove il risentimento verso il privilegio e il potere iniziano a cancellare ogni rispetto per la grande conquista della legge e della libertà che noi europei abbiamo ereditato. Del resto, esiste una sorta di "industria accademica" che si dedica a giustificare la cultura del ripudio».
Qualche nome?
«Penso ad alcuni nomi nelle discipline letterarie e nelle scienze sociali: da Foucault a Deleuze fino a Toni Negri, nonché l’establishment italiano marxista degli anni Settanta. Alla radice vi è la perdita della fede religiosa. Ma anche una sorta di narcisismo, cioè il sentimento per il quale uno stabilisce la propria purezza rigettando le cose piuttosto che sottoporsi al lavoro e alla disciplina richiesti per accettarle».
Lei critica la Wto perché estende globalmente il libero mercato a scapito delle realtà economiche locali. Bisogna ritornare al protezionismo?
«Non lo considero una cosa malvagia. Alcune cose vanno protette dalla forza del mercato: le relazioni sessuali, i valori familiari, le credenze religiose. Davvero pensiamo che il mercato debba prevalere sull’abitudine islamica delle 5 preghiere quotidiane, un’abitudine che crea uno svantaggio economico alle società musulmane contemporanee? Lasciamo che essi proteggano i loro mercati se ciò significa proteggere i loro valori e stili di vita. E facciamo lo stesso noi. È decisamente insana l’idea che il mercato globale debba avere gli stessi nostri standard».
Nel suo saggio lei accenna all’ingresso della Turchia nell’Ue in chiave possibilista: così questo grosso Paese islamico sarebbe messo al riparo dalla non cittadinanza che vige nel mondo musulmano. È favorevole ad Ankara in Europa?
«Domanda molto difficile. Io sono un turcofilo, sebbene preferisca la versione della Turchia modellata da Kemal Ataturk a quella di oggi. Sarei felice che la Turchia entrasse nell’Ue se la Gran Bretagna non ne facesse parte. Ma l’Ue ha un’esigenza pericolosa per il libero mercato del lavoro, che significa il libero movimento del lavoro, ad esempio, verso la Gran Bretagna. Se l’Ue non avesse questo obbligo, e lasciasse la sovranità nazionale, non ci sarebbe il problema di chi si sposta. Stando così le cose io sono contro l’ingresso della Turchia, ma vedo questa questione come un grande fallimento dell’Ue visto che un Paese che ne potrebbe far parte ne viene rigettato. E anzi, potrebbe diventarne un futuro nemico».