Idee. Le nuvole, specchio di sé e strada verso il divino
Anche se non leviamo gli occhi al cielo, le nubi ci accompagnano. Raro il cielo limpido. Dove però non vediamo gli astri, il sole ci acceca occultandoli. Ma di notte, se le nubi dominano, non vediamo le stelle. Siamo ciechi. Di notte e di giorno. O vediamo gli oggetti del desiderio, in quel cielo dove proiettiamo il massimo anelito. Nefele, centauri e invidia di Era sono nati nel punto dove nasce il mito e si cela il divino, ma nel paradosso, nessuno ha saputo capire il gioco degli dei come Aristofane: giocare a dadi, o dissolvere i disegni sulla sabbia, sulla riva del mare. Dove è Dio? Dove è la verità? La cerchiamo solo attraverso le sue forme mutevoli e dove si oppone la vista: essa si camuffa nelle parole e nelle cose come fossero nuvole: né Socrate né noi possiamo conoscerla; ma solo sapere che si cela, perché è qualcosa che appartiene solo al divino, che gli uomini non possono toccare, né possedere, né tanto meno “usare” a proprio profitto. Il comico, la sua dissolvenza, svolge un’azione di catarsi complementare a quella tragica. Sebbene il problema della visione di Dio sembri semplice – o invisibilità oppure trasposizione di forme di potenza simbolica nell’arcaico – anche l’invisibilità ha bisogno di essere capita. Servono esempi immaginativi, e la “semplicità” del non vedere è la più complicata. La più antica, e in apparenza più affine alla metafisica, si affida alla nube. Perciò, per un momento, sospendiamo la visibilità nello specchio e in aenigmate, di san Paolo, e altre immagini di dissolvenza, come l’arcobaleno. Ecco Ildegarda di Bingen: «La luce che vedo non ha spazio, ma è molto, molto più luminosa di una nu- vola che avvolga il sole. Non posso valutarne l’altezza, la lunghezza o la larghezza; e la chiamo “l’ombra della luce vivente”. E come il sole, la luna e le stelle si rispecchiano nell’acqua, così la Scrittura, i discorsi, le virtù e alcune opere di uomini prendono forma per me e si riflettono luminosi in quella luce». Come «un firmamento senza stelle entro una nuvola di luce», l’ombra è una fontana che la disseta, e la solleva da ogni tristezza. Se Ildegarda vede il negativo in un positivo, Angela da Foligno sprofonda nel nulla dove Dio pone la creazione, attraverso il proprio figlio: nell’amore senza misura che abbraccia anche il male, redenzione e resurrezione. La coscienza trinitaria è visione di luce e tenebra insieme. Ma è dalla tenebra che Angela deve estrarre la luce fino a farsi luce, come l’uomo-Dio sulla croce, che l’attrae «con tenebra». Nessuno qui parla di colori. Eppure, come scrive Plutarco, mentre la luce di Osiride è il bianco inaccessibile che acceca, visibile solo nel puro attimo, ecco i colori di Iside, disposta a proteggerci nel suo manto stellato: notte e velo rugiadoso, anima colorata e germinante, nella quale ci rifugiamo come in quella di Maria. Ruotiamo il pensiero, ed ecco il manto-nube-colori cui nessun mistico ha fatto cenno, rivelare il suo 'grigio': la commistione di bianco-nero, di luce-tenebra, che è il colore dominante dei sogni, e dunque il colore per eccellenza dell’immaginazione.
È alla “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino, che le riflessioni principali di Victoria Cirlot si conducono in Immagini negative. Le nuvole nell’immaginazione mistica e nella modernità (Medusa, pagine 104, euro 13,00), dove coglie occasioni moderne, nella “decostruzione del figurativo”, e nello “stile correlativo”, o analogico, di cui parla Enrico Lodi nell’introduzione: Lost cloud di André Kertész, una mostra di Perejaume in Catalogna, l’Atlas elemental de núvols di Eduard Fontseré, che l’arretrano all’Adorazione dei Magi e del Bambino in Meister Francke e via via a Calcidio e agli iranici, in associazioni infinite. Un giorno entra nella Alte Pinakothek di Monaco e viene folgorata da alcuni dei 150 disegni delle nuvole di Johann Georg von Sillis. Furono fatti a matita su carta azzurra, probabilmente su suggestione delle riflessioni di Goethe su Luke Howard, che per primo studiò le nuvole attribuendo loro nomi dalle forme. Sillis non è il primo, in quel versante anticipato da Piranesi, Constable, e sul piano poetico-teorico da Coleridge, de Quincey, Baudelaire. Applaudendo la scienza di Luke, Goethe univa metafisica e poesia: le nubi sono il velo, il simbolo, infinitamente cangiante, delle forme. Di qualunque natura siano, nella loro sostanza aerea di ghiaccio ed etere, proprio come avevano capito i greci che avevano pensato a Elena come a un eidolon, una nube d’aria, meraviglioso inganno della verità, della bellezza, del divino, sulla scorta degli indiani vedici che vedevano le aurore come divinità del crepuscolo: doppi, ombre, fantasmi generanti il sole nascosto. Non resta che tentare di afferrarne il velo, come Faust; esso è elusivo, ma è un dono che guida all’etere altissimo. La forma negativa si avvicina di più al mistero di Dio. La trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Victoria Cirlot proietta sulle nubi che vede l’immensa tradizione della docta ignorantia, da Dionigi l’Areopagita, Origene, Gregorio di Nissa, Giovanni Scoto Eriugena, Riccardo di San Vittore: la via apofatica che fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, «nube della non conoscenza», spogliazione e oblio, e ha un suo vertice- abisso nella “notte oscura” di Giovanni della Croce. Se penso al Dizionario dei simboli di Juan Eduard Cirlot, padre di Victoria, che lei ha ricostruito per Adelphi, penso al fascino dell’avventura del simbolo, che rimbalza vittorioso, proprio come il suo nome, nelle immagini: anche dalla morfologia di una muffa sulla parete, o dalle inchiostrazioni di Rorschach, o dalle pitture informali.