Il caso
Millennium ha fatto scuola. Da quando la celebre saga letteraria di Stieg Larsson è stata adattata per il grande e il piccolo schermo (con annesso successo planetario), in tv è un tripudio di serie poliziesche nordiche. Titoli provenienti dalla Svezia o dalla Danimarca stanno letteralmente facendo il giro del mondo incantando gli spettatori con i loro delitti efferati. La stessa America ne è rimasta affascinata, tanto che è impossibile non notare nei nuovi
cult a stelle e a strisce (
True detective in primis) un riverbero delle atmosfere gialle svedesi, che amano crogiolarsi tra nebbie, paludi e fredde ambientazioni. In Italia a cavalcare il fenomeno è soprattutto Laeffe: «Siamo stati i primi a proporre in modo strutturato il
crime nordico – spiega Riccardo Chiattelli, direttore di Laeffe –. Tra l’altro il genere è molto affine alla filosofia del nostro canale perché quasi tutte queste serie nascono da bestseller letterari, famosi in tutto il mondo». All’interno del ciclo “Giallo Svezia”, Laeffe ha proposto, per esempio,
Annika: Crime Reporter, tratta dai libri della “first lady” del giallo svedese Liza Marklund;
Omicidi tra i fiordi, dai romanzi della scrittrice da quindici milioni di copie Camilla Läckberg;
Il commissario Wallander, serie Bbc interpretata da Kenneth Branagh ispirata ai bestseller dello svedese Henning Mankell. Poi, a ruota, anche gli altri canali italiani hanno seguito la tendenza: su Giallo sono andate in onda le quattro stagioni del poliziesco svedese Omicidi a Sandhamn; la nuova esclusiva estiva di TimVision è stata
Jordskott, La7 ha cavalcato
Millennium e per l’autunno il canale a pagamento di Mediaset Premium, Crime, scommette sulla coproduzione americana e svedese
100 Code. Per non parlare del successo riscosso su FoxCrime dai famosi remake americani
The killing, adattamento del danese
Forbrydelsen, e
The bridge, dalla fiction scandinava
Bron/Broen. Il nuovo corso del poliziesco, dunque, porta verso il profondo Nord, ma il cambiamento non si limita all’introduzione di una nuova estetica del genere, qui indubbiamente più realistica e identitaria rispetta a quella, omologante, americana. Al di là delle loro inquietanti ambientazioni, i gialli nordici si distinguono infatti per il loro, inedito, universo narrativo che non ha nulla da spartire né con il dorato mondo della
Signora in giallo, né con gli ispirati interrogativi esistenziali di
Criminal minds. Quello proposto è un mondo nuovo: più spietato, cinico, materialista e quindi, a giudizio degli autori, più veritiero rispetto all’immaginario a stelle e strisce. «La grande differenza sta nell’uso, completamente diverso, degli archetipi – spiega Gian Paolo Parenti, direttore dei canali Premium Crime e Joi –. Pur tra mille difficoltà e sconfitte, il poliziotto americano dà sempre la scalata al cielo e vince. Quello nordico è invece un angelo caduto, la cui tragedia è evidente, colto nell’attimo esatto in cui prepara la propria rinascita (per lo più lasciata all’immaginazione del telespettatore)».Come nei rispettivi bestseller letterari, a dominare le storie è la presenza di un male assoluto rispetto al quale non ci si pone domande. I cattivi sono cattivi e basta, senza una ragione. E su tutto grava l’assenza di Dio: un vuoto che finisce per togliere ai protagonisti persino la speranza. Così, spesso, la risoluzione dei casi porta alla rivelazione di verità ancora più agghiaccianti dello stesso delitto commesso, di fronte alle quali i personaggi si scoprono, ancora una volta, inermi, soli e impotenti. Ma la fragilità non è mai semplicemente individuale: il male di vivere è collettivo, sociale, tant’è vero che tra i temi ricorrenti nelle storie nordiche figura la denuncia rispetto al potere politico. «I
crime del Nord Europa hanno una forte presa sul pubblico anche perché sono spesso intrecciati alla vita politica dei Paesi di appartenenza – conferma Chiattelli –. Non ci si ferma mai alla canonica investigazione, fina a se stessa, ma si affonda nelle radici sociali e culturali di quei luoghi». Peccato che il più delle volte sia un viaggio verso l’inferno, tra famiglie scoppiate, violenze domestiche, abusi, dipendenze e una società che occulta la verità usando il proprio potere. La desolazione è palpabile: non c’è, per esempio, un protagonista che sia felicemente sposato. Chi è coniugato si lascia infatti prima del termine della stagione. Gli altri, sono già divorziati. E nel caso di protagonisti giovani, lo status più inflazionato è quello di orfano. Quei pochi che hanno i genitori, spesso sono stati vittima di violenze. La famiglia è insomma un bene perduto, o comunque una realtà ai quali i protagonisti hanno di fatto rinunciato per causa di forza maggiore. Qualcuno la rimpiange, ne si avverte l’assenza, ma la presa di coscienza della fine di questa istituzione è palese. Da qui, l’eloquenza della freddezza delle inquadrature e delle ambientazioni: non sono mai casuali ma riflettono il deserto dell’animo umano, di cui i delitti narrati ne sono espressioni intermittenti. «Le indagini, per i poliziotti, diventano in molti casi l’occasione per affrontare il proprio lato oscuro, fatto di ossessioni e sensi di colpa, ma anche quando si concludono positivamente non portano mai ad un completo superamento delle difficoltà personali – aggiunge Parenti –. La fragilità dei “buoni” si accompagna e spesso si intreccia con la follia dei criminali, lasciando al lettore e al telespettatore la sensazione che il limite tra normalità e pazzia, tra bene e male, sia in realtà una barriera assolutamente permeabile. Di qui il senso di inquietudine che le produzioni nordiche lasciano sempre, a differenza delle produzioni americane». Ma se questa inquietudine finisce per diventare
cult, consacrando il successo di un genere, non può che essere anche un eloquente segno dei tempi.