Idee. Il recinto della nonviolenza
Aldo Capitini (Perugia, 1899-1968) è stato filosofo, politico, antifascista, educatore e poeta
Racconta l’autista di Giovanni Gentile che, quando il 15 aprile 1944 un commando di gappisti fiorentini uccise il filosofo di fronte al cancello della sua casa, il giovane che sparò, esplodendo i colpi a bruciapelo, gridò che egli non intendeva uccidere l’uomo ma le idee. Una frase sinistra che, trent’anni più tardi, avremmo tante volte letto nei comunicati dei terroristi rossi. Una frase che, emblematicamente, rappresenta un’idea: quella dell’uomo ridotto a simbolo, spogliato della sua umanità, considerato al di fuori delle sue relazioni famigliari, dei suoi affetti, della sua intimità, del suo passato e del suo futuro. L’uomo non più persona ma ridotto ad oggetto. A cosa. Nel rifiuto di questa riduzione sta la ragione ultima, insuperabile, della contrarietà alla pena di morte. Quel rifiuto che a Cesare Beccaria faceva dire: «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Quel rifiuto che, nel 1981, al termine di una memorabile polemica con Massimo Mila sulla pena di morte – dopo lunghe discussioni che tendevano a dimostrare l’inutilità della pena capitale – portava Alessandro Galante Garrone a concludere che, al di là di ogni ragione pratica, comunque, la pena di morte è inaccettabile «perché degrada l’essere umano ad oggetto». Un’affermazione radicale e insuperabile: che non lascia spazio ad alcuna obiezione.
Tanto più radicale se si considera che viene da un uomo della Resistenza. Ho avuto lunga consuetudine con combattenti della Resistenza. E ognuno di loro si ritrovava nelle parole con cui Beppe Fenoglio racconta il momento della scelta del partigiano Johnny: «Partì verso le somme colline… sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», investito, «in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente ». Nessun rimpianto per aver organizzato e combattuto quella che don Lorenzo Milani – nelle pagine della lettera ai cappellani militari ( L’obbedienza non è più una virtù), che rimane uno dei testi più implacabili dell’antimilitarismo – definirà l’unica guerra giusta: «l’unica che non fos- se offesa alle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Nessun rimorso per la morte data in battaglia. Eppure, quegli stessi uomini, a cinquant’anni di distanza, erano ancora visitati dai fantasmi dei ricordi delle fucilazioni e più ancora delle esecuzioni sommarie dei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Non amavano parlarne. Rifuggivano l’argomento. E, quando glielo proponevi, avvertivi che avrebbero preferito farne a meno.
Rievocando la vicenda di un traditore che era quasi riuscito a farlo arrestare nel suo ufficio in Tribunale e che i partigiani avevano poi catturato e fucilato a Pradleves (nonostante i suoi timidi tentativi di salvarlo), Alessandro Galante Garrone mi racconterà: «Sentii gli spari del plotone di esecuzione, a distanza. Ti confesso che ancora oggi mi pare di risentire quegli spari. E non è un bel ricordo ». E del resto, che cos’è, se non il fantasma di un cattivo ricordo, l’ossessione dell’uomo al muro, che ricorre, nella sua tragica nudità, in tanti racconti di Fenoglio? Vittorio Foa ha scritto pagine memorabili su cosa significò, per la generazione che passò attraverso la Grande Guerra, l’esperienza della trincea: l’abitudine della morte che poteva giungere in qualunque momento; i tentativi di attacco privi di alcuna possibilità di successo; l’indifferenza a distruggere; la disciplina totale, ferrea, nell’eseguire ordini che portavano quasi sicuramente alla morte o alla mutilazione. Il disprezzo per la vita e l’accettazione del totalitarismo moderno, che sarà protagonista del Novecento, conclude Foa, nascono probabilmente da qui: «Nelle fosse di fango, nelle trincee della guerra».
Il faticoso superamento di questa eredità novecentesca troverà la motivazione vera, più profonda, definitiva, inattaccabile, nel sentimento di sacralità della persona umana, nel rifiuto di accettare che l’uomo sia ridotto a mero corpo, a cosa. Lì, comunque, si arriva. Potrà essere una motivazione religiosa: il “non uccidere” del V comandamento. Potrà essere una motivazione etico-filosofica, di matrice illuministica: quella di Beccaria. Ma, alla fine, si torna ai comuni valori della nostra civiltà. È la religione dei padri – oppure la religione laica dei propri maestri – che, non a caso, ritroviamo in tante lettere dei condannati a morte della Resistenza: un appello ai valori di fondo. La cui radice è la stessa: il richiamo sarà comunque ai principi fondamentali, su cui le diverse culture si incontrano: è un sentire profondo che va ben al di là di ogni ragionamento politico.
È l’intimo sentire che dar la morte ad un proprio simile è cosa indicibilmente oscena. Contro natura. Ma anche leggendo e comprendendo la profondità del pensiero di Capitini, io penso (sommessamente) che, così come un individuo, un popolo non può rinunciare al principio di legittima difesa. «C’è sempre il principio della guerra giusta, che è quella difensiva: la guerra difensiva è sempre la possibilità ultima» ma non può essere esclusa in assoluto. «Anche questa è brutta, ma è così. Se uno attacca e vuole calpestare il diritto alla vita, il diritto di esistere, c’è il diritto alla difesa». Sono parole di un pontefice. Le pronunciò, a Castel Gandolfo, papa Wojtyla, il 22 luglio 1995. Importanza delle date: erano trascorsi appena quattro giorni dal massacro di Srebrenica. Eppure, anche noi che non vogliamo dimenticare i cingoli dei carri armati di Hitler e il massacro di Srebrenica, dobbiamo essere prudentissimi nel maneggiare il concetto di “guerra giusta”. Perché – anche questo ci insegna la Storia – troppe volte, anche ai giorni nostri, la “guerra giusta” è stata invocata per giustificare, affrettatamente, aggressioni per nulla necessarie. “Guerra giusta” troppo spesso è diventata la parola d’ordine per correre a sirene spiegate verso il conflitto armato, senza che fossero esperiti «tutti i tentativi razionali di salvare la pace».
Ecco che ritornano le parole di Capitini. Anche chi pensa che il suo pacifismo radicale e utopico non possa – sempre e comunque – trasformarsi in regola di governo dei cittadini, anche chi non vuole rinunciare all’eccezione della legittima difesa, deve portare con sé, come memento perenne, la frase forse più famosa del filosofo perugino: «Guardiamoci intorno: troppe nefandezze sono oggi compiute a fin di bene; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto».
La lezione di Capitini. Presentazione a Torino
Proponiamo in queste colonne ampi stralci della prefazione che ha scritto Paolo Borgna per il libro di Pietro Polito “Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla non violenza”, edito da Seb27 (pagine 178, euro 15,00). È, quella di Polito, una lunga riflessione sull’uso della violenza, anche e soprattutto nella Resistenza, e sulla scelta non violenta incentrata soprattutto sulla filosofia e le scelte di vita di Aldo Capitini.; il volume sarà presentato oggi alle 17.30 preso il Polo del ’900 di Palazzo San Daniela a Torino (via del Carmine, 14). Con l’autore e Borgna ci saranno Anna Bravo e Diego Guzzi.