Agorà

Arte. Oro e policromia: tutti i colori di Bisanzio

Carlo Ossola venerdì 8 settembre 2023

Sant'Eudocia. Icona marmorea dalla chiesa di Costantino Lips, Istambul

Chi abbia memoria del Voyage en Orient (1851) di Gérard de Nerval: « Istanbul è una città scoscesa e dove l’arte ha poco corretto la natura. Ci si sente meglio quando si imbocca la lunga via delle Moschee, che è l’arteria principale, e che termina nei grandi bazar. È da ammirare, di notte soprattutto, per i suoi magnifici giardini, per le balconate, le fontane di marmo con le recinzioni dorate, le edicole, i portici, i molteplici minareti negli incerti chiarori d’un giorno azzurrino; le iscrizioni dorate, le pitture di lacca, le griglie dalle nervature luccicanti, i marmi scolpiti e gli ornamenti intarsiati di colori sfavillano da ogni parte» (tomo II, “ Visita a Pera”), si troverà ora a proprio agio negli intarsi colorati che il saggio propone, in questi pliniani artifizi «interraso marmore», nelle infinite variazioni tecniche di incisione e riempimento, nei raffinati modi dello champlevé. È un mondo gremito, lontano dalla fissità immemoriale degli ori di eterna luce: la poikilia (l’ornamento variegato e multicolore) domina in tutta la sua virtuosità: pietre incastonate, piumaggi dipinti, quasi un’orificeria architettonica che farà esclamare ai viaggiatori occidentali: «qui siamo all’ Alhambra». Lo ricorda, ammirato, Roland Barthes nel suo ultimo corso al Collège de France, 1979-1980, La préparation du roman, osservando che «il poikilos sarebbe, in un certo senso, il rapsodico. Sapete che “rapsodico”, in greco rhaptéin, vuol dire “cucire”»: non si tratta dunque soltanto di ciò che è “ticchiolato”, bensì di ciò che è ben cucito, cesellato, che ha un ritmo proprio e si fa appunto “rapsodico”, inanellando un’alternanza colorata di forme.

Tale è questo libro di Silvia Pedone (La policromia nella scultura bizantina. Accademia Nazionale dei Lincei/Bardi Edizioni Pagine 418. Euro 29) che ci fa uscire dalla grigia seriazione dell’“indistinto”, dell’ “uniforme” (opposte da Barthes stesso alla poikilia): quando si entri, con l’autrice , nelle chiese di Hosios Loukas (Focide), o a Istanbul nelle chiese di Sergio e Bacco; o si percorra la mirabile teoria dei capitelli di Santa Sofia che emergono da tracce di colore blu disteso, sul fondo, come un “basso continuo” – tutti mirabilmente fotografati dalla stessa Pedone -, si è presi da meraviglia e vertigine, come se sin qui si fosse visto soltanto il ridotto di un teatro. Più ancora l’autrice ci fa entrare nella “fabbrica” materiale di quelle forme a stucco: «Numerosi potevano poi essere gli inclusi inerti, come il cocciopesto, la paglia, la sabbia, o altro, che permettevano una maggiore duttilità nella lavorazione o una migliore aderenza a supporti e sostegni di ancoraggio». È un esempio, tra i tanti, di quella “scienza delle legature” tra l’organico e l’inorganico che ha sorretto la nostra civiltà per tanti secoli e che l’autrice ci dispiega con sicura competenza e viva curiositas.

Dopo molti decenni, ecco finalmente un libro nel quale « les mots et les choses » si richiamano reciprocamente e s’intrecciano “nel farsi dell’arte”. Un capitolo da cui molto si apprende è quello dei «mastici colorati » e delle tecniche che li governano, sino a produrre «fregi ad incrostazione». E proprio in queste soluzioni di innesti policromi e polimaterici, sta anche la sorprendente modernità di certi manufatti, quali i frammenti marmorei di colonnine ottogonali con incrostazioni policrome (conservati nel Museo archeologico di Sofia, e a noi resi visibili dalle fotografie dell’autrice) che irresistibilmente ci portano alle infiltrazioni / riparazioni di Yee Soo-kyung (Seul, 1963). Resterebbe da saggiare storicamente l’alternanza tra motivi iconici e motivi fortemente aniconici (tracce dei periodi di iconoclasmo? Perfezione del motivo geometrico ripetuto, secondo la tradizione araba?) quali quelli fotografati nel templon, o nell’epistilio della prothesis, di Panagia Episcopì a Santorini o nel pluteo dell’iconostasi di san Demetrio Katsouri ad Arta. Questo saggio è dunque molto di più che una storia della scultura dipinta nei secoli della civiltà bizantina: è una vera “rivelazione” che accresce l’ordine delle cose: come scrisse Borges, parlando di libri e di biblioteche – e qui vale per questi splendidi manufatti osservando « che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo»