Agorà

Storia. Non solo Islam: un viaggio di tre millenni per capire il mondo arabo

Franco Cardini giovedì 19 ottobre 2023

L'Alhambra, a Granada

La “freccia del tempo”, questo simbolo impietoso dello scorrere inesorabile e irreversibile dei giorni degli uomini e del mondo che ha trionfato nel “nostro Occidente” dall’età greco-romana a oggi, ci angoscia di continuo ma spesso si rivela davvero insufficiente. Allora si ricorre ad altre immagini. La “ruota del tempo” che gira eternamente sul suo perno e che ci lega all’Eterno Ritorno dell’Eguale, quello che piaceva e piace alla cultura indiana, che affascinava pitagorici e neoplatonici e che Nietzsche riuscì a traghettare nella Modernità filosofica; oppure la “clessidra”, semplice aggeggio fatto da due bicchieri di vetro di forma conica comunicanti fra loro ai vertici, che sono bucati, e che lascia scorrere lentamente un filo d’acqua o di sabbia dall’uno all’altro, dall’alto verso il basso: quando il cono di sotto è riempito sappiamo ch’è passata un’ora e giriamo l’aggeggio. Quante volte i popoli, esausti di “frecce” ed esasperati a causa delle “ruote”, sono usciti dal tempo rovesciando la clessidra, mettendo letteralmente tutto sottosopra, magari – come quel personaggio del capolavoro di Tomasi di Lampedusa – “cambiando tutto affinché tutto resti come prima”?

Tim Mackintosh-Smith, celebre ed eminente arabista, ha vissuto una quarantina d’anni nello Yemen, l’antica Arabia felix: il suo primo libro era dedicato a un sogno e a una speranza, quelli di un Paese dell’apice meridionale della penisola arabica, sospeso tra Asia e Africa e tra un passato glorioso e un presente di scismi all’interno dell’islam e di pressioni colonialistiche, e che nel 1990 era riuscito a unificarsi. Quel sogno si è spezzato nel 2016, nel corso di una guerra civile iniziata l’anno prima e che perdura ancora nell’indifferenza degli altri arabi e di tutta la società civile del mondo, quella che si vanta o s’illude di venir rappresentata dall’ONU (boriosa sigla della cosiddetta “Organizzazione delle Nazioni Unite”). Una sanguinosa “guerra dimenticata”.

Non stupirà pertanto che il racconto di Mackintosh-Smith Gli arabi. 3000 anni di storia di popoli, tribù e imperi (Einaudi Pagine 800. Euro 40,00) si apra con un ricordo di guerra civile, nei primi tempi dell’islam (verso il 630), dov’entrano la veggenza e la magia, due silenziose compagne della vita del mondo arabo; e arrivi dopo poche decine di pagine al racconto apocalittico della distruzione della ciclopica diga di Ma’rib, ai primi del VII secolo, quando ancora viveva il profeta Muhammad. Quel crollo rovinoso mise fine al prospero regno dei sabei, i successori della “regina di Saba”, in quanto quella mirabile opera d’ingegneria regolava il regime delle acque di un Paese che dalla ricchezza idrica faceva dipendere la sua prosperità (Arabia felix, appunto, in un’immensa penisola arida e assetata). Tragica eroina dell’evento fu Tarifa, la kahina (“veggente”) del re, che previde il disastro e guidò il suo popolo attraverso una migrazione tra gli eserciti di due invasori contrapposti, i persiani che scendevano dal nord e gli etìopi che risalivano dal sud.

Eternità sempre uguale a se stessa e repentini irrimediabili (o provvidenziali) mutamenti; arcaici regni millenari resi favolosi grazie alle loro miniere di metallo pregiato e alle ricche carovaniere che li attraversavano – la “regina di Saba” di tremila anni or sono non è una leggenda – e scontri tra popolazioni indigene e conquistatori stranieri, tra stanziali e nomadi; sorgere e tramontare di antichi imperi, sovrastato dall’incredibile avventura dell’islam e dal conseguente prodigioso estendersi di un linguaggio parlato e scritto che sarebbe diventato uno dei principali idiomi di cultura di tutta la nostra storia.

Cammellieri, mercanti di spezie, allevatori di cavalli, gli arabi erano stati fra i “protagonisti nascosti” del mondo romano, ch’ebbe anche un imperatore arabo a guidarli ma che non li comprese mai del tutto (erano famosi tra i romani come molles, pigri e viziosi: mai equivoco fu più ridicolo). Grazie all’islam dilagarono prodigiosamente nel mondo afroasiatico e anche europeo, ma soprattutto “arabizzarono”, islamizzandoli, altri popoli estranei al loro originario ceppo semitico (indoeuropei erano persiani e indiani, uraloaltaici i turchi). Mackintosh- Smith fatica perfino lui, talora a distinguere tra “arabi” (quasi tutti, ma non tutti, musulmani) e “musulmani” (arabofoni o arabografi in tutto o in gran parte, ma etnicamente quasi tutti non-arabi).

Il paradosso centrale del mondo arabo sta nel fatto che, etnicamente parlando, esso perse quasi tutto il suo primato che le conquiste immediatamente succedute alla primissima espansione dell’islam avevano fondato. Gli arabi dell’ovest, avviati alla conquista del Mediterraneo e della penisola iberica, si fusero con i berberi; gli altri s’incontrarono con i persiani nell’impero califfale abbaside e quindi in vario modo furono vinti ma anche vincitori nel confronto con gli uraloaltaici, i mongoli, che prevalsero tra XII e XVIII secolo con le dinastie genghizkhanide, ottomana e timuride.

Dalle campagne napoleoniche in poi gli arabi, sottratti magari alla signoria turca, avviarono il loro processo di “modernizzazione”, che li condusse alla scoperta del nazionalismo, quindi alla decolonizzazione, quindi alla drammatica condizione post-coloniale che li portò a subire il fascino dell’Occidente europeo prima e americano poi, non senza “fughe” verso il fascismo e il comunismo ed esperienze oscillanti tra fondamentalismo, tirannide e anarchismo.

La recente polemica accesa da alcuni incauti politici a proposito di certi biglietti al museo egizio di Torino offerti in condizioni di favori ad arabi e/o arabofoni ha mostrato una volta di più che i nostri politici e i nostri operatori massmediali confondono tra la categoria dell’arabo (come lingua e come popolo) e quella del musulmano (cioè adepto di una religione). Una prova di più dell’opportunità di un libro come questo di Mackintosh-Smith; e della problematicità della sua diffusione, specie nelle scuole.