L’editore Aragno pubblica i lavori della Sodalitas Indignantium, «un gruppo aperto di studiosi delle discipline umanistiche e di cultori dell’uso del latino che sono indignati per i ricorrenti tentativi d’escludere l’insegnamento delle lingue classiche dalle scuole e di denigrarne la forza formatrice». Dopo essersi occupati della depressione (2013) e dell’impostura (2014), gli Indignantes hanno pubblicato di recente, con testo latino a fronte, il dialogo di Poggio Bracciolini sull’Avarizia ( Torino 2015, pp. 206, euro 12), sàpido trattatello che mostra «come l’antichità abbia elaborato alcuni grandi temi che ancora occupano il nostro orizzonte ». Poggio Bracciolini (1380-1459), eclettico umanista, fu abbreviatore e segretario apostolico a Roma; partecipò al Concilio di Costanza (141418) che, con l’elezione di Martino V, pose fine all’imbarazzante situazione di una Chiesa con tre papi simultanei. Viaggiò per mezza Europa alla ricerca di manoscritti antichi, riuscendo a recuperare testi di Cicerone, di Quintiliano e soprattutto il
De rerum natura di Lucrezio. Rientrato in Italia, dopo Roma fu a Firenze come cancelliere della Repubblica, dal 1453 a un anno prima di morire. Nel dialogo sull’Avarizia, Poggio funge da estensore di una discussione postprandiale tra quattro umanisti suoi amici e colleghi di curia: Bartolomeo da Montepulciano (13851429), segretario apostolico con Martino V; Antonio Loschi, umanista vicentino (1365-1441), funzionario della Curia romana; Cencio di Paolo de’ Rustici (†1445) collaboratore di Giovanni XXIII, Martino V, Eugenio IV. A questi tre viene poi ad aggiungersi Andrea di Costantinopoli (†1451, non 1251 come nel refuso della nota a p. 25), che fu arcivescovo di Rodi ed ebbe importanti incarichi pontifici per i contatti con la Chiesa d’Oriente. Tra gli argomenti di Bartolomeo, assai pertinente l’invettiva contro quei frati predicatori (non certo san Bernardino, trattato con rispetto) che «non suscitano odio per i peccati, ma curiosità: tanto apertamente descrivono le azioni ignominiose». Molto interessante la difesa che Antonio Loschi perora per l’avarizia intesa non come mera brama di possesso: per sant’Agostino «l’avarizia è volere più di quanto sia sufficiente » ma, obietta giustamente Antonio, se i contadini si limitassero a coltivare il campicello a esclusivo uso della propria famiglia, non ci sarebbe alcun progresso, e «se volessimo avere solo quel che ci basta, si eliminerebbe la consuetudine delle virtù più care al popolo, cioè la misericordia e la carità, perché nessuno sarebbe né benefico, né liberale ». E, anticipando Adam Smith: «Chi mai farà qualcosa, se si leva la prospettiva di un utile?». Tocca ad Andrea (Cencio è poco più di una comparsa) tirare le conclusioni. La condanna dell’avarizia è netta, ma le osservazioni di Antonio vengono recuperate con la distinzione tra
avaritia e
aviditas: «Ogni avaro arde di avidità, ma non ogni avido brucia di avarizia». Con questa poco felice parola,
aviditas, Andrea intende il desiderio di migliorare la propria condizione e di fare cose grandi per il bene comune, facendo diventare l’avidità quasi sinonimo di magnificenza. Aveva già detto tutto e bene Tommaso d’Aquino, ricordato nell’introduzione dai curatori Claudio Piga e Giancarlo Rossi: Tommaso riprende dall’Ethica
nicomachea di Aristotele la definizione della virtù della generosità come giusto mezzo tra due vizi opposti: l’avarizia, vizio per difetto, e la prodigalità, vizio per eccesso. Su questo concetto, anche se con altre parole, i quattro umanisti si trovano d’accordo, compreso Antonio, il cui panegirico dell’avarizia era stato forse avanzato solo come espediente dialettico. Utile e, a suo modo, divertente la “disputa conviviale” di Poggio Bracciolini, anche se riscoprire i classici e, in genere, frequentare le biblioteche è scoraggiante, perché ci si accorge che tutto era già stato detto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Ritorna il dialogo scritto nel Quattrocento dall’umanista toscano: il vizio è da condannare, ma il «volere più di quanto sia sufficiente» può diventare, se ben indirizzato, una virtù