Definirle custodi della memoria è riduttivo. Da anni migliaia di bosniache cercano i resti dei loro padri, mariti, figli e fidanzati, inghiottiti dalla pulizia etnica. Un’indagine silenziosa, intercettata dal reporter polacco Wojciech Tochman. Classe ’69, originario di Cracovia e quasi sconosciuto in Italia, da vent’anni collabora con la "Gazeta Wyborcza", il più importante quotidiano del suo Paese, e ha già pubblicato sei raccolte di reportage, tradotte in undici lingue.Dal 2000 al 2003 ha seguito un’antropologa, Eva Elvira Klonowski, che nelle fosse comuni e non solo ha già riesumato le ossa di duemila vittime. «Li ha ripescati dai pozzi, tirati fuori dalle grotte, estratti da una discarica o da un’accozzaglia di ossa suine», scrive Tochman. Di origine polacca, membro dell’Accademia americana di Scienze forensi, l’esperta lavora in Bosnia-Erzegovina dal ’96, tentando di dare un’identità agli scomparsi. Restituendoli a chi non li ha mai dimenticati: sono loro, donne e altri familiari, i protagonisti di "Come se mangiassi pietre" (Keller, pagine 144, euro 14,00), presentato nel tardo pomeriggio di ieri a Palazzo Blumenstihl, sede dell’Istituto polacco di Roma. Con questo esempio del genere definito in Polonia "letteratura di fatto", il giornalista e scrittore è arrivato in finale ai premi "Nike" Polonia e "Témoin du Monde", concesso da Radio France Internationale.Già uscito in vari Paesi – dalla Francia a Gran Bretagna e Stati Uniti –, il volume è stato tradotto in italiano da Marzena Borejczuk su incarico di Roberto Keller, lo stesso editore che per primo in Italia ha pubblicato Herta Müller, Nobel per la letteratura 2009. A dare il titolo al libro di Tochman è una frase del figlio di Halima, quarantadue anni, che non sa più nulla del marito e a volte lo rivede in sogno, facendo stridere i denti. «Ho sgranocchiato? Mi dispiace», dice al bambino, che paragona quello strano rumore che lo sveglia al masticare sassi. Qualcosa di durissimo da digerire e rielaborare, anche se «il mondo esiste».
L’idea di realizzare questo reportage è nata constatando che alla fine dei conflitti si spengono i riflettori e i giornalisti partono «di gran fretta per altre guerre»?«Dal 1992 per due anni sono andato in Bosnia a portare aiuti umanitari insieme ad associazioni non profit polacche e francesi. Sono tornato dopo il 2000, pensando di scrivere un reportage sui soldati Onu che ancora stazionavano nei territori e abusavano delle donne del posto. Poi qualcuno mi ha parlato della dottoressa. Ci siamo incontrati e ha iniziato a raccontarmi del suo lavoro. In quel momento ho capito che si sta spalancando davanti a me un tema enorme, che riguardava argomenti universali. Pensai che non sarebbe stato un racconto sulle ossa, ma della responsabilità dei vivi sui morti, della vita e della risurrezione».
Le sue pagine danno voce alle persone incontrate. Un modo per non archiviare il passato, per non rimuovere la storia recente?«Quando scrivo cerco di avvicinare i protagonisti al lettore, sia che si tratti di Bosnia che di Ruanda, a cui ho dedicato il mio ultimo libro. Per me è molto importante che chi legge riesca a provare empatia e a condividere la sofferenza delle persone che racconto, pur se in minima parte. Vorrei non solo che sapesse e ricordasse, ma che prendesse su di sé almeno un pezzettino di questo dolore provocato dalla perdita dei propri cari, simile per il bosniaco come per il tutsi. Nonostante tutte le differenze culturali, le leggi dei sentimenti sono identiche: anche la paura ci accomuna in tutto il mondo, come il non voler vedere ciò che succede intorno a noi. Nella storia tutti i genocidi, oltre allo sterminio di un popolo, volevano cancellarne la memoria. Non dico di rimuginare ossessivamente sulle vittime, ma che ci sia almeno un attimo in cui si pensa a loro, si prega per loro. Altrimenti siamo dalla parte degli esecutori che volevano ottenere l’oblio».
Ha già pubblicato varie raccolte di reportage. Cosa ama raccontare?«Il mio prossimo libro, sul genocidio in Ruanda, uscirà il 24 novembre in Polonia. Mi sto occupando di bambini e ragazzi manipolati dai regimi perché uccidessero. Oggi sono adulti, assassini e vittime allo stesso tempo. Oltre allo scenario storico, che fa da sfondo, ciò che mi interessa è la psicologia che sta dietro i genocidi. Ma non c’è il bianco o il nero. Anche il testimone in qualche modo partecipa e oggi chiunque di noi lo è attraverso i media, ma la maggio- ranza fa finta di non vedere… Una reazione umana comprensibi-le, ma ciascuno può fare qualcosa nel quotidiano, in quanto elettore e cittadino. La lezione di un insegnante, l’omelia di un prete, la partecipazione a un’Ong...».
Ha conosciuto Ryszard Kapuscinski, noto giornalista e scrittore polacco scomparso nel 2007? Avverte di avere un approccio simile alla realtà?«Non mi piace definirmi un suo epigono, perché molti in Polonia si vantano di averlo frequentato. E mi auguro che il mio sguardo sul mondo sia diverso dal suo, perché lui stesso mi ha insegnato come maestro a fare così, come a documentarsi con tutti i materiali possibili sull’argomento che si intende affrontare. A un certo punto bisogna mettersi a scrivere, scoprendo una verità antica e frustrante: più sai e meno sai…».