«Per sentire ancora l’inno nazionale ed essere orgoglioso di aver servito il mio Paese», parola di Michael, pivot di basket in carrozzina che quattro anni fa, come militare dell’esercito americano, ha perso l’uso delle gambe per un incidente in servizio. Michael è uno delle migliaia di militari statunitensi che riportano disabilità, spesso durante missioni all’estero. Lo abbiamo incontrato al Museo della tecnica di San Josè, capoluogo della Silicon Valley, in California. Questo museo illustra, coinvolgendo direttamente il pubblico, le tappe evolutive della tecnologia e fra un microchip e un genoma umano, dedica una sezione alle innovazioni nello sport. C’è pure quello paralimpico. Sono allestite, in maniera permanente, due carrozzine da corsa su cui ci si può sedere e a forza di spinte con le mani sulle ruote si può provare cosa significa correre. Meglio: gareggiare perché le carrozzine sono due e sono molti i visitatori che provano questa sfida con tanto di monitor in cui, come in un video gioco, si segue la corsa. Uno stand mix di high-tech e sensibilizzazione. Un cartello avverte che la corsa con la carrozzina è un vero e proprio sport, reso possibile dalle applicazioni tecnologiche alla sedia a rotelle, sulla quale gli esperti della Silicon Valley sono al lavoro per offrire nuove prestazioni. Per tutte le persone come Michael, l’Usoc - il comitato olimpico americano - promuove un programma dedicato ai veterani e a chi in guerra riporta disabilità. Sono oltre 8mila i militari che hanno partecipato, con un incremento del 50% di adesioni al programma negli ultimi due anni. «Mi sono ritrovato a fare sport nel centro di riabilitazione e poi a casa. Mi è piaciuto e ho continuato – racconta Michael –. Ora vorrei fare qualche gara». Per risentire le “farfalle” nella pancia, vedendo la propria bandiera sventolare sulle note dell’inno nazionale. La pensa così anche l’italiano Pasquale Barriera, 42 anni, militare dell’esercito italiano che, nel 2001, in una missione Isaf in Afghanistan - come capo nucleo divisione trasporti - ha riportato una paraplegia a seguito di un incidente. «Mi piacerebbe poter fare agonismo nel tiro a segno, disciplina che ho scelto durante il periodo di riabilitazione all’Istituto Santa Lucia di Roma», racconta. «Ho ascoltato l’inno di Mameli per vent’anni, ogni mattina, e ora vorrei poterlo risentire, anche se in un’altra situazione».Barriera è vicino a vivere questa emozione poiché in Italia sta avvenendo una svolta. Il Comitato italiano paralimpico ha firmato un’intesa con il ministero della Difesa per avviare alla pratica sportiva il personale militare che in missione riporta una disabilità, soldati che sinora sono sempre rimasti confinati negli ospedali militari e lasciati soli nella ricerca di una società sportiva. «Dopo il ricovero all’ospedale del Celio, ho scelto di fare un periodo di riabilitazione in Svizzera dove ho potuto provare alcuni sport come il nuoto, il basket e l’handbike», racconta Simone Careddu, 33 anni, soldato dell’8° Reggimento, 22ª Compagnia dell’esercito italiano, vittima nel 2009 di un attentato durante una ricognizione nella città di Farah in Afghanistan. «Una volta tornato a casa – spiega Simone – ho frequentato l’Istituto Don Calabria di Verona, la mia città, e lì ho scoperto che potevo fare sport anche se ormai ero costretto su una sedia a rotelle. E da lì ho cominciato a chiedere, a informarmi e sono riuscito a trovare una società sportiva dove c’era una squadra di basket paralimpico, l’Olympic basket Verona». Forza di volontà e tenacia le sue armi: «Ho scelto di praticare basket – continua Careddu – perché mi mancava la squadra. Come militare si lavora in gruppo, con il basket sento di nuovo di far parte di un team. È stato impegnativo cercare e trovare un centro per fare sport, non sapevo nemmeno dell’esistenza del Comitato paralimpico. Quindi, non avevo punti di riferimento e ho continuato chiedere perché sono un gran testardo, ma qualcuno può anche scoraggiarsi. Con l’accordo fra ministero della Difesa e Cip mi auguro ci siano più informazioni». Significative a riguardo le parole del presidente del Comitato italiano Paralimpico, Luca Pancalli: «Ho potuto conoscere personalmente alcuni reduci delle forze militari italiane – spiega –, tutte persone abituate a svolgere attività sportive, addestramenti e allenamenti. E che una volta scoperto lo sport paralimpico stanno profondendo lì le loro energie con grande entusiasmo». Persone che, come Careddu e Barriera, affermano la gioia di poter vestire di nuovo una divisa nazionale, e rappresentare ancora l’Italia. Alle Paralimpiadi di Sochi che si apriranno il 7 marzo prossimo, non ci saranno atleti italiani ex militari, ma sono numerosi quelli stranieri. La maggior parte sono americani. Fra questi Healt Calhoun, campione di sci alpino, portabandiera ai Giochi invernali di Vancouver, è bi-amputato alle gambe a causa dell’esplosione di una granata durante la guerra in Iraq. Ex militari anche nella squadra russa. Uno per tutti: Vadim Selyukin che ha perso le gambe durante il suo servizio in Cecenia. A Sochi è il capitano della squadra russa di sledge hockey. L’inglese Talan Skeels Piggins gareggerà nello sci alpino, ma a Bristol, come tenente della Royal Navy, aiuta i militari inglesi che diventano disabili, mettendo a disposizione la sua esperienza di atleta paralimpico. Militari: persone che hanno vissuto un grande dolore fisico e psicologico a causa del lavoro che hanno scelto. Che, dopo essere diventati para o tetraplegici, amputati, ciechi, hanno dovuto affrontare un altro tipo di addestramento per continuare a vivere. La loro presenza nello sport e in particolare ai Giochi, oltre a dimostrare coraggio e forza d’animo, ha un ulteriore significato, se allo sport continuiamo a dare il ruolo di messaggero di valori. Perché, come ha detto il Premio Nobel, Ralph Bunche: «Nessuno può parlare più eloquentemente a favore della pace, di quelli che hanno combattuto in guerra».