Ci sono guerre che si studiano sui manuali di storia, altre che si leggono ancora, purtroppo, sui quotidiani. Ma ci sono anche guerre sconosciute, che piagano il cuore. Valérie Donzelli e Jérémie Elkaïm hanno vissuto la loro: coppia felice fino a quando al loro bimbo di diciotto mesi viene diagnosticato un tumore maligno al cervello. In quel momento sottoscrivono la loro personale dichiarazione di guerra e la consegnano al loro mondo, alle loro certezze, al loro futuro. Iniziano a combattere contro un nemico tenace e terribile. Ma lei che è regista, lui che è attore e il bambino che sappiamo avere oggi otto anni, non potevano dimenticare.Le emozioni vissute sono diventate una sceneggiatura, scritta a quattro mani, e questa un film:
La guerra è dichiarata, da oggi sugli schermi. Drammatico, mai sentimentale. Intenso e vivo dalla prima all’ultima immagine. Venato anche di commedia, di musica, di sorrisi. Una confessione dell’anima. «Mentre io e Jérémie vivevamo questa dolorosa storia – racconta la regista e attrice francese – e ci chiedevamo perché capitasse proprio a noi, ci siamo detti che l’esperienza che stavamo vivendo un giorno si sarebbe prestata benissimo per diventare un film pulsante d’amore e di dolore, un film d’azione. Infatti, il mio punto di partenza non è stata la ma-lattia, ma la storia di una giovane coppia e di come insieme l’affrontano. Durante quel periodo difficile, avevo tenuto un piccolo diario, la nostra piccola Bibbia, per ricordarmi tutte le cose e le emozioni che vivevo e come evolveva la malattia di mio figlio. È stata la fonte della sceneggiatura».
Nel film usa tre nomi famosi per i protagonisti: Roméo, Juliette e il piccolo Adam.Nella coscienza collettiva i primi due indicano un amore senza confini, così ho dato anche una tonalità universale a questa coppia, allontanando la loro storia dalla nostra. Adam è il primo uomo, per noi il primo figlio: pur attraversando la malattia e il dolore, rimane in vita.
Quali regole si è data girando questa storia autobiografica così intima?L’unico vincolo che mi sono posta girando il film è stata la fedeltà assoluta a quanto era successo. Mi interessava raccontare una storia personale per condividerla con tutti. Jérémie ha usato una espressione perfetta per descrivere il nostro lavoro: «Abbiamo eliminato tutto il brutto e condiviso con il pubblico solo il bello».
Pensa che possa aiutare le madri che hanno vissuto o vivono il suo stesso percorso?Non lo so proprio, la mia è una visione personale delle cose. Forse alcuni genitori soffriranno o si innervosiranno guardando il film. Ho avuto, però, un riscontro importante dai molti che hanno vissuto esperienze simili, hanno trovato un modo onesto e vero di descrivere le sensazioni, le preoccupazioni e le inquietudini che si provano davanti alla malattia e di come ci si sente disarmati.
Perché il dolore che vivono Juliette e Roméo alla fine, una volta guarito Adam, li separa?Perché capiscono che nulla può essere più come prima. Anche perché lungo tutto il periodo in cui Adam è stato sottoposto ai trattamenti, hanno vissuto in ospedale, soli e isolati da lui. Una esperienza che li trasforma. Forse c’è anche la necessità di separarsi in modo temporaneo per capire, per non sentirsi ancora soffocare.
Come ha reagito suo figlio quando gli ha detto che avrebbe girato un film sulla sua storia?Glielo abbiamo detto quando abbiamo cominciato a lavorare alla sceneggiatura. Non ha avuto alcuna reazione particolare, anche perché lui era talmente piccolo quando ha vissuto la malattia. È stato anche contento che si potesse trasformare questa sua esperienza, che lui sa essere stata brutta, in qualche cosa di bello, addirittura un film. Lo ha visto con la nonna. Gli è piaciuto.