Il peccato si annida nell’industria e nella droga del potere. Lì la civiltà che discende direttamente da Caino ha generato il disprezzo per la natura, il disgusto per la vita, il piacere della ferocia. La malvagità degli uomini e dei loro figli è grande: si cibano di carne cruda, ogni pensiero e ogni azione grondano sangue, la terra, sfruttata, è divenuta brulla, grigia, inospitale. Tutto è orientato alla violenza e al sopruso. Noè, ritirato sulle pendici di un’arida collina con la famiglia, ne ha un’eco che si fa sempre più vicina. Penetra i suoi pensieri, invade il suo sonno. Di velleitario clamore epico più che di fedele materiale biblico – quello dei capitoli della Genesi che trattano, con avarizia di particolari ma forza simbolica e spirituale, del patriarca e del diluvio – si gonfia e si espande l’atteso, bulimico e molto chiacchierato
Noah di Darren Aronofsky (progetto inseguito da anni, di cui ha scritto la sceneggiatura con Ari Handel), uscito venerdì nelle sale degli Stati Uniti, in Italia a partire dal 10 aprile con un’anteprima nazionale il 5 per l’apertura del Bif&st di Bari.Dovendo riempire gli spazi di una narrazione scarna di informazioni, il regista americano cerca la spettacolarità offerta dal testo adattandola al suo stile che guarda alla modernità del mito e alla sua attualità – timori apocalittici, responsabilità ecologiche, scontri di civiltà – restringendo gli spazi del sacro e allargando a dismisura quelli, pur suggestivi, della favola nera, del saggio psicologico e del racconto guerriero. Scuro, scavato, allucinato è il volto di Russell Crowe nel ruolo di Noè, che nei sogni prende coscienza della devastazione morale della terra e riceve il comando di costruire l’arca: i suoi piedi pestano un suolo intriso di sangue, l’acqua in cui si vede immerso pullula di orrendi cadaveri e dalle profondità marine salgono le specie animali verso lo scafo luminoso dell’arca. Immagini potenti che corrono parallele a quelle assai meno ispirate e più fragili che devono necessariamente creare una appetibile storia cinematografica. Così nascono personaggi di pura fantasia che affiancano la moglie del patriarca (Jennifer Connelly) e i suoi tre figli Sem, Cam e Iafet, circondati da un’orda di cattivi guidati da Tubal-cain che istiga al male e alla ribellione come fece il serpente nell’Eden, della cui pelle – con quale senso? – si cingono il braccio destro la stirpe dei patriarchi. Ma sono altrettanto numerose le derive, pur spettacolari e visivamente avvincenti, che in fondo compiacciono in primo luogo l’egocentrismo mentale e artistico del regista, cui piace contrapporre l’umiltà dei buoni all’orgoglio dei cattivi: Matusalemme (Antony Hopkins) è una specie di Mago Merlino che aiuta il nipote nell’ambizioso progetto di costruzione dell’arca affidandogli un seme, l’ultimo dell’Eden, dal quale nascerà una foresta (sulla terra non ce ne sono più) che fornirà il legname necessario; per dare spazio alle mai celate contaminazioni new age, ci sono pure gli angeli caduti trasformati in mostri di pietra dagli occhi di fuoco (forse i giganti di cui parla il testo biblico) che proteggono e aiutano Noè fino a quando trovano il modo per ritornare, come spiriti di luce, nel Paradiso originario da cui furono scacciati. Dopo le spettacolari immagini delle battaglie, dell’arrivo degli animali nell’arca addormentati da speciali effluvi, delle acque che sommergono la terra e distruggono l’umanità, la vita dei reclusi procede di pura fantasia: la moglie di Sem (Ila, interpretata da Emma Watson) genera due gemelle che Noè nel suo radicalismo spirituale sente il dovere di sopprimere perché l’ordine ricevuto impone la totale eliminazione del genere umano. Questo non è più il tempo della misericordia, dice, ma quello della punizione; la moglie freme al solo pensiero e versa continue lacrime, Cam è assalito dai dubbi e dall’ebrezza della violenza, perché Tubal-cain è il nuovo serpente scampato al diluvio, mentre il piccolo Iafet aspetta il tragico epilogo. Noè corre sul filo della pazzia, le acque si ritirano finalmente e il verde della terra appare. La vita è al suo nuovo inizio, la debolezza non è stata debellata (l’episodio dell’ubriacatura di Noè non ha però spiegazioni), l’arcobaleno rifulge nel cielo senza che mai sia stato fatto cenno alla nuova alleanza tra l’umanità e Dio. Che, per compiacere le ansie ecologiche del film, è sempre chiamato "Creatore".