Una vita da Javier Zanetti, canterà un giorno Ligabue, aggiornando la versione classica della vita da mediano alla Oriali. Due nomi, due bandiere della secolare storia interista, Lele Oriali e Javier Zanetti, il capitano di lungo corso, tenace nella resistenza al "mercenariato" imperante anche nel mondo del calcio. Contro un’etica sportiva calpestata, l’
hidalgo Javier scende in campo tutti i giorni, con l’entusiasmo dell’eterno "Pupi". È il nomignolo che si porta dietro dai tempi in cui cominciò a inseguire un pallone per le strade di Dock-Sud il quartiere dove la sua infanzia non è stata affatto facile: «C’erano poche risorse - ricorda oggi -, tranne la speranza nel futuro». Un futuro che si è costruito da solo, lasciando l’Argentina («a segnalarmi all’Inter fu Angelillo»), lavorando di polmoni e di cuore, senza dimenticare mai gli occhi tristi dei bambini poveri di Buenos Aires. Appena ha potuto è tornato a soccorrerli con la
Fondazione Pupi - creata con l’appoggio della moglie Paula - che opera nella favela di Lanus, la stessa in cui è nata la cometa luminosa di Diego Armando Maradona.
Un progetto che vale quanto uno scudetto quello della Fondazione?«Sicuramente una sfida avvincente che abbiamo cominciato 6 anni fa. Oggi ospitiamo 150 ragazzi molti dei quali beneficiano delle adozioni a distanza. Cerchiamo di garantire servizi di prima necessità: l’alimentazione, l’educazione, l’igiene. Per quello che possiamo cerchiamo di aiutare anche le loro famiglie e la comunità in cui vivono».
I suoi colleghi calciatori la stanno aiutando in questa missione?«Il mondo del calcio mi ha aiutato in quest’impresa, ma una mano importante a "Pupi" è arrivata soprattutto dalla gente comune»
In questi tempi di crisi economica le sarà capitato di sentir dire dagli italiani: "faremo la fine dell’Argentina"?«Sono frasi che si dicono, ma io spero proprio che non accada perché l’Argentina paga ancora le conseguenze dell’ultima crisi del 2002. Comunque credo che il popolo italiano ha la fortuna di vivere a stretto contatto con la realtà europea che impedirà che succeda quello che abbiamo vissuto a Buenos Aires».
Dopo 14 anni d’Italia, qual è l’aspetto al quale ancora non si è abituato del nostro Paese?«L’eccessiva fretta di vivere. A Milano un caffè dura un minuto, in Argentina almeno mezz’ora in cui ci si trova per il piacere di stare insieme e non necessariamente per lavoro. Qui si va troppo di corsa e la gente sembra che non abbia più tempo per fermarsi a pensare e a chiedersi come stai... Non lo trovo giusto».
Quanto ha inciso il calcio nella sua vita?«Potrei dire tutto, ma prima viene la famiglia, gli affetti, le amicizie. Il calcio è una passione che mi porto dentro e che mi fa vivere questo lavoro in maniera molto più leggera».
Quando ha iniziato, pensava che la sua sarebbe stata una carriera da record (617 gare con l’Inter, 128 con l’Argentina)?«Quando da ragazzini si comincia a giocare a calcio uno non pensa mai a quanto durerà, ma cerca solo di dimostrare a se stesso e alla gente tutto il suo valore».
Zanetti ormai è la storia dell’Inter...«Sono solo un pezzo di questa storia, quanto importante sarà il tempo a dirlo, per il momento ringrazio il presidente Moratti che ha creduto in me anche quando ero solo un giovane argentino sconosciuto e poi i tifosi per il grande calore che mi hanno sempre trasmesso in questi anni in cui sono cresciuto come uomo oltre e come calciatore».
Per i tifosi nerazzurri lei è la proiezione moderna di Giacinto Facchetti, cosa le manca del suo ex presidente?«Mi mancano tanto le sue parole di incoraggiamento e i tanti consigli che mi ha dato e che mi sono stati utili come quelli di un padre. Però io dico sempre che Giacinto non se ne è andato, è qui con noi, anche adesso mentre stiamo parlando...».
Qual è il suo rapporto con la fede?«Dio mi sostiene in ogni momento, senza sarei perso. Mi fa male quando sento qualcuno che bestemmia in campo. A volte ho dovuto riprendere dei compagni che lo facevano... Però mi consola il fatto che di bestemmie se ne sentono sempre di meno».
Restano stabili invece gli ululati razzisti contro i giocatori di colore...«L’ignoranza è una brutta malattia, si può e si deve combatterla. Noi in campo siamo i primi che ci impegniamo contro il razzismo e la violenza negli stadi, ma non è facile da estirpare».
Il "5 maggio" resta ancora il giorno più triste della sua storia professionale...«È stato un grande dolore sul piano sportivo e mi ha fatto ancora più male dopo, quando si sono scoperte un sacco di cose... Allora ho pensato: forse quella giornata poteva essere evitata...».
Sta dicendo che Calciopoli era cominciata quattro anni prima del fatidico 2006?«Non so quando è cominciato, ma so che ci siamo salvati grazie al fatto che quel marcio è venuto alla luce. Mi dispiace però che non sento mai nessuno che dice che tutto quello che è successo è stato un bene per il calcio italiano».
Si dice che nel nostro campionato ci siano troppi stranieri. Voi dell’Inter rappresentiate la massima "legione" schierandone spesso 11 su 11.«Io ora sono italiano e tanti dei miei compagni hanno il doppio passaporto. E poi in un mondo che parla sempre di globalizzazione, quello che dicono dell’Inter piena di stranieri non ci interessa molto. Noi andiamo in campo per divertire la gente e per arrivare sempre più in alto».
Hanno detto e scritto di tutto su Mourinho, ma per il "capitano" chi è il tecnico portoghese?«È uno che parla chiaro, un uomo schietto e questo per noi giocatori è fondamentale».
Maradona ct della sua Nazionale può funzionare?«Diego rappresenta tanto per l’Argentina. L’ho visto tranquillo e sono sicuro che farà bene anche in questo nuovo ruolo».
Pelè l’ha inserita tra i 100 campioni di sempre. Uno dei dubbi del secolo: più forte lui o Maradona?«Senza dubbio Maradona».
I giocatori sono "ricchi e ignoranti": è un luogo comune che regge ancora?«Bisogna vedere chi lo pensa. Certo, finchè l’immagine di un calciatore è solo quella che viene fuori dalle interviste quotidiane... Penso che sia il caso di allargare l’orizzonte, un calciatore è prima di tutto un uomo e da quello si dovrebbe partire per comprenderlo veramente a pieno».
Se non avesse giocato a calcio, che cosa le sarebbe piaciuto fare?«Il cantante. Mi piace la musica in generale e mi diverto a cantare Ramazzotti e Ligabue».
Ha duettato anche con Mina se è per questo, ma ha mai ha mai pensato al dopo, a quando smetterà di fare il capitano dell’Inter?«Voglio godermi questi ultimi anni di carriera, poi penserò a scegliere la strada migliore».
Uno pensiero al 2009 che sta arrivando.«Mi piacerebbe regalare un po’ di serenità a tutti, a cominciare dai bambini e vorrei che si uscisse in fretta da questa crisi che tra l’altro impedisce a tanta gente di venire allo stadio perché non ha i soldi per il biglietto. Sarà una sfida dura, ma sono fiducioso, possiamo vincerla...».