Il cardinale Attilio Nicora dal 2002 è il presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). Laureato in giurisprudenza alla Cattolica prima di diventare sacerdote, il porporato lombardo – originario di Varese – è tra le menti giuridiche più esperte della Curia Romana. In Vaticano fa parte, tra l’altro, anche del Consiglio della II Sezione della Segreteria di Stato; del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano. Nicora ha seguito da vicino i lavori che hanno portato all’Accordo del 1984 con cui si revisionava il Concordato del ’29 e ne ha seguito successivamente l’applicazione. Per questi motivi è tra le persone più indicate per commentare l’80° anniversario dei Patti Lateranensi, che cade proprio domani 11 febbraio.
Eminenza, i Patti Lateranensi compiono ottant’anni. Sono ormai invecchiati o conservano la loro attualità? «Il primo dei due Patti, il Trattato, chiuse definitivamente la cosiddetta 'questione romana' componendo in modo nuovo il riconoscimento dello Stato italiano unitario con Roma capitale e la garanzia piena dell’indipendenza della Santa Sede: è stato vagliato e confermato dai drammatici eventi del secolo scorso e gode ormai di una stabilità indiscussa nell’ambito internazionale. Il secondo, il Concordato, ha trovato attraverso l’Accordo di modificazione del 1984 un più corretto equilibrio tra le disposizioni della Costituzione repubblicana e i principi del Vaticano II, assumendo chiaramente il volto di un patto di libertà e collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese. Le materie che esso disciplina sono più esposte al variare delle situazioni e degli eventi, ma nella sostanza l’Accordo mantiene il suo valore».
Ha senso ancora oggi l’esistenza di uno Stato della Città del Vaticano? «Lo Stato della Città del Vaticano, segno visibile e garanzia sicura dell’indipendenza della Santa Sede per il libero esercizio della sua missione spirituale nel mondo, ha senso più che mai in uno scenario mondiale come il nostro: emergenza di popoli nuovi, pluralità di Stati e di Organizzazioni internazionali, esigenze di dialogo e di cooperazione per un miglior governo della realtà mondiale, drammatici problemi di libertà (anche religiosa), di giustizia, di rispetto della dignità di persone e nazioni. La possibilità per la Santa Sede di entrare con il proprio volto e la propria peculiarità nella rete relazionale che ne deriva per favorire un autentico progresso dell’umanità e per assicurare in ogni caso la libertà della Chiesa dipende per non poca parte dalla sovranità sul piccolo Stato in cui ha sede: essa ne segnala e ne garantisce l’indipendenza nel concreto della vicen- da storica, senza più rischi di ingerenza o all’opposto di 'protettorato' da parte di chicchessia».
In passato i Concordati sono stati stipulati prevalentemente con regimi non democratici. Qual è il senso di usare oggi, con governi democratici, strumenti pattizi? «Non si tratta più di 'regolamento di confini' in un’ottica di sospetto e di controllo reciproco tra Chiesa e Stati, ma di ricerca, nei singoli contesti culturali, sociali e politici spesso molto diversi tra loro, di forme efficaci e liberamente assentite di garanzia della piena libertà della Chiesa nel suo ministero e nelle sue strutture pastorali e di collaborazione costruttiva con lo Stato a servizio del bene delle persone e della società; ovviamente si presuppone sempre il pieno rispetto della libertà religiosa per ogni persona e per ogni altra confessione».
Hanno senso Concordati e Accordi dopo il Concilio Vaticano II? «L’ondata anti-concordataria degli anni postconciliari si è a poco a poco esaurita, anche perché era frutto di una lettura parziale e distorta dei testi del Vaticano II, il quale rifiuta indubbiamente i privilegi ma non i concordati in se stessi (costituzione Gaudium et Spes, 76). Se un concordato si struttura come patto di libertà e di collaborazione ha piena legittimità ancor oggi».
Il Concordato del 1929 è stato aggiornato con l’Accordo del 1984. Come mai la Chiesa tende a non usare più il termine Concordato? È una questione nominalistica o di contenuto? «Di fatto si preferisce il termine 'accordo' quando si apportano modificazioni a Concordati già stipulati, oppure quando le materie che vengono disciplinate ex novo non presentano tratti di completa organicità. Alla fine, è comunque una questione piuttosto nominale».
La Chiesa preferisce i regimi concordatari o il modello americano a volte pure lodato, che però contempla una netta separazione tra Stato e Chiesa? «Nell’ambito delle relazioni istituzionali tra gli Stati e la Chiesa cattolica conta molto la diversità dei contesti culturali, sociali, politici e la storia caratteristica di ciascuna nazione. La tradizione di separatismo 'aperto', tipica degli Stati Uniti, assicura alla Chiesa reali possibilità di esercizio della sua libertà anche in ambito sociale e pubblico grazie a una legislazione di stampo autenticamente liberale che rispetta e agevola le forze vive della società. Diversa è stata spesso la storia dei Paesi dell’Europa, molto più segnati da un separatismo polemico e anticlericale (o addirittura anticristiano) e da forti e dolorosi ritardi del mondo ecclesiale nel guadagnare gli orizzonti di libertà civile, che pur derivano dall’evangelico 'Date a Cesare... date a Dio'. A ciascuna situazione si cerca di rispondere con gli strumenti appropriati».
Lei, insieme al professor Margiotta Broglio, è co- presidente della Commissione paritetica Italia-Santa Sede per l’applicazione della revisione del Concordato. Può indicarci, brevemente, di che cosa si occupa e in quale clima svolge il suo lavoro? «Il clima è da sempre di molto rispetto e cordialità; si può discutere anche puntigliosamente, mantenendo stile, rigore, volontà di ricerca di convergenze feconde, e magari trovando anche modo di stare simpaticamente assieme; il che, con i tempi che corrono, non è poco. La Commissione si occupa dei profili attuativi dell’Accordo del 1984 ancora eventualmente non compiuti e delle questioni interpretative che derivassero nel tempo, anche a seguito del naturale evolversi degli ordinamenti giuridici delle due Parti. È peraltro da ricordare che in alcune materie si è preferito, come del resto lo stesso Accordo autorizza a fare, il livello di rapporti tra Conferenza episcopale e Governo italiano (si pensi ai beni culturali o all’assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri)».