Molto probabilmente nessuno pagherebbe la signora Onilde, attempata vicina di casa, per sapere come mai sotto il portone di casa c’è un mezzo dei pompieri con tanto di lampeggianti. Di certo non vale un centesimo un’informazione di cui tutto il palazzo è a conoscenza, anche se la signora Onilde saprebbe sicuramente colorire di emozione il racconto del salvataggio del gatto del signor Giuseppe, altro inquilino del piano. Eppure forse qualche euro lo daremmo volentieri a Paolo, giovane agente di borsa e nostro dirimpettaio, per una «dritta» sulle mosse per i giusti investimenti. Per non parlare dei munifici doni che facciamo giungere al piano di sopra a Marta, medico al policlinico universitario, che più di qualche volta ci ha aiutato a evitare o a superare qualche malanno. Se avesse un nome questo condominio si chiamerebbe «mondo dell’informazione»: le dinamiche tra gli abitanti, infatti, riflettono – in modo volutamente semplificato – quello che oggi sta avvenendo nel campo della produzione e della fruizione delle notizie, sempre più caratterizzate da istantaneità e partecipazione. Dimensioni che mettono a dura prova i meccanismi dei «vecchi» mezzi della comunicazione come i giornali, tanto che qualcuno si è azzardato a pronosticare l’ormai prossima fine della carta stampata. Già nel 2007 l’editore del
New York Times, Arthur Ochs Sulzberger, si disse quasi certo che il maggior quotidiano degli Stati Uniti non sarebbe arrivato più ai lettori su carta dopo il 2012. E in questi mesi di dura crisi economica i giornali di tutto il mondo si sono sentiti sempre più minacciati anche da internet, che da ormai da 15 anni è l’oggetto del desiderio e lo spauracchio dei professionisti della comunicazione. La grande rete, si dice, ha abituato gli utenti al gratuito, privando i produttori dei contenuti di grosse fette di guadagno e ha dato a tutti la possibilità di trasformarsi in produttori di notizie, mettendo in crisi il ruolo dei giornalisti. In realtà tutti, intuendo le enormi potenzialità della rete, hanno voluto esserci sul web, anche se in realtà proprio il mondo dell’editoria e dell’informazione non ha mai trovato un modello economico soddisfacente su questo canale.Far pagare l’accesso ai siti delle testate online o no: questo fin dall’inizio, tra il 1993 e il 1994, è stato il dilemma. Il 4 dicembre 1994
L’Unione Sarda, primo quotidiano online d’Europa, dal 31 luglio di quell’anno (appena nove mesi dopo quello che viene considerato il primo quotidiano online al mondo, il californiano
San Jose Mercury News), scriveva: «Chi guadagnerà dalle nuove strade dell’informatica e come si manterrà questo immenso sistema? Internet nasce come una rete aperta e in gran parte gratuita. Probabilmente le porte resteranno spalancate alla libera circolazione, mentre i futuri business si individueranno nella gestione delle informazioni, nella creazione di servizi, nell’organizzazione delle strade di accesso».Oggi sappiamo che il cammino da compiere era ancora lungo e segnato da grosse difficoltà, legate anche ai modelli economici adottati per internet. I giornali negli anni hanno provato diverse strategie, passando dal «tutto gratis» al «tutto a pagamento» e viceversa anche più volte, come nel caso del
New York Times. Molte volte i cambiamenti non sono nati da scelte strategiche di sviluppo ma da veri e propri «esodi» dei lettori che hanno abbandonato le testate di fronte alla richiesta di sborsare soldi per le notizie che fino al giorno prima erano gratuite.In realtà la più grande difficoltà che hanno mostrato editori e giornalisti in questi anni non è stata quella di usare il mezzo informatico ma quella di ripensare le proprie strutture interne e i meccanismi della produzione della notizia per adattarli alla cultura digitale di cui la rete è la massima espressione. D’altra parte non si può incolpare esclusivamente internet di mettere a rischio i giornali e il mestiere dei giornalisti, perché nel «villaggio digitale globale» il flusso di informazioni e notizie arriva di continuo attraverso decine di canali, basta passeggiare per strada, salire su un autobus, prendere la metropolitana, accendere la tv o ascoltare la radio per capire che siamo sempre bombardati dalle «news». Perché allora dovremmo pagare per le notizie online?Un esempio del perché potrebbe venire dal
Wall Street Journal, il giornale finanziario acquisito nel 2007 dalla News Corp di Rupert Murdoch, magnate australiano dei media. Il valore particolare delle notizie di economia e l’autorevolezza della testata, infatti, per ora ha premiato il modello a pagamento, anche se di recente Murdoch ha lanciato una crociata contro Google. Attraverso il motore di ricerca, infatti, era possibile leggere tutti gli articoli che il
Wall Street Journal offre a pagamento. Google ha risposto limitando teoricamente a cinque gli articoli consultabili gratuitamente.Eppure, paradossalmente, lo stesso Murdoch in un’intervista televisiva a un’emittente statunitense ha detto che in realtà i lettori che arrivano alle notizie attraverso i motori di ricerca non sono il vero «patrimonio» di una testata online, perché spesso non sanno chi è l’autore dell’articolo; molto più importanti, invece, sono quei lettori fedeli che digitano di persona l’indirizzo internet del giornale. Il risultato di questa visione è stato che il
Wall Street Journal nei mesi scorsi è diventato il primo quotidiano americano online con 350 mila abbonati su internet. Da questo successo Murdoch ha ricavato la convinzione che tutti i giornali debbano far pagare le notizie online.Ma la sua soluzione non convince nemmeno il maggior concorrente del
Wall Street Journal, il
New York Times, che si sta interrogando sul modello da adottare e nel frattempo non solo rende disponibili tutte le notizie aggiornate in tempo reale ma ha aperto i propri archivi online con la possibilità di compiere ricerche fino all’anno di fondazione, il 1851. E i visitatori al sito
Nytime.com (1,5 milioni) hanno superato il numero di abbonati alla versione cartacea (1,1 milioni). Stessa tendenza per il
Los Angeles Times, che ha chiesto alla propria redazione di considerare internet, e non la carta, come il mezzo principale di diffusione. Alcuni hanno deciso di abbandonare la versione cartacea, consegnano ai propri abbonati solo un giornale elettronico. È il caso dell’edizione statunitense di
Pc Magazine, che non è più su carta da gennaio 2009. Ma anche qui si parla di una testata dedicata a temi particolari e non una testata generalista.In Europa il modello più diffuso è quello noto anche ai lettori italiani delle due maggiori testate
Repubblica.it e
Corriere.it: online si trovano gratuitamente le notizie aggiornate e alcuni articoli tratti dalla versione cartacea. Nel quotidiano in edicola, poi, si trovano anche articoli realizzati per il sito il giorno precedente. Alcune testate offrono l’accesso all’archivio, tutte danno la possibilità di comprare dal sito un abbonamento al giornale cartaceo (o alla versione elettronica di quello che viene stampato). In ogni caso è solo la versione «stampata» che produce introiti dai lettori. Ma anche per i siti internet sono proprio i lettori il patrimonio più prezioso: grazie al numero – e anche alla qualità, ormai rilevabile attraverso l’incrocio di diversi dati come il tempo che ogni utente spende sul sito – delle visite è possibile aumentare la raccolta di pubblicità e quindi di guadagnare, anche se in modo indiretto, attraverso la produzione di notizie. A fronte di una diminuzione (il 23,2% secondo la Nielsen) degli investimenti pubblicitari sulla carta stampata nei primi dieci mesi del 2009 nello stesso periodo gli annunci su internet hanno fatto registrare continui aumenti. Dati che dovrebbero mettere al bando le profezie sulla fine del giornalismo e spingere invece i giornalisti a dare sempre più autorevolezza al proprio lavoro: anche online il buon giornalismo può creare un circolo virtuoso in grado di creare valore per i lettori e per le imprese editoriali.