Scenari. Neuroscienze: che ne resta del libero arbitrio?
Proponiamo un estratto dell’introduzione alla nuova edizione del volume Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice, pagine 302, euro 18,00), a cura di Andrea Lavazza, caporedattore di “Avvenire” e senior research fellow presso il Cui di Arezzo, Mario De Caro, docente di Filosofia morale all’Università di Roma Tre, e Giuseppe Sartori, ordinario di Neuropsicologia forense e Neuroscienze forensi all’Università di Padova. Il volume si arricchisce dei saggi di Derk Pereboom e Gregg D. Caruso Lo scetticismo sulla libertà e un nuovo esistenzialismo, di Alfred R. Mele Libero arbitrio, responsabilità morale ed epifenomenismo scientifico e di Roy F. Baumeister, Stephan Lau, Hather M. Maranges e Cory J. Clark Per le azioni umani complesse è necessaria la coscienza.
Sono ormai celebri le ricerche condotte da Benjamin Libet, lo scienziato che per primo applicò metodi di indagine neurofisiologica per studiare la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Nei suoi esperimenti, Libet invitava i partecipanti a muovere quando avessero voluto («liberamente e a proprio piacimento' » il polso della mano destra e, contemporaneamente, a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento: l’obiettivo era infatti quello di indagare il rapporto tra la coscienza dell’inizio di un atto e la dinamica neurofisiologica sottostante [...]. Il risultato controintuitivo, e secondo molti rivoluzionario, degli esperimenti di Libet emerge dalla comparazione del tempo soggettivo della decisione con quello neurale: si rileva infatti che il potenziale di prontezza motoria, che culmina nell’esecuzione del movimento, comincia nelle aree motorie prefrontali del cervello molto prima del momento in cui al soggetto sembra di aver preso la decisione. I volontari, infatti, diventavano consapevoli dell’intenzione di agire circa 350 millisecondi (ms) dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo II (tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e 500-800 ms dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo I (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il processo volitivo sembra quindi prendere avvio inconsciamente, in quanto il cervello si prepara all’azione molto prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere il movimento [...]. In generale, i risultati delle neuroscienze e delle scienze cognitive oggi pongono profondamente in discussione le idee ordinarie sulla natura dell’azione consapevole, della razionalità e della libertà. Come ha sottolineato Michele Di Francesco, «il soggetto è depotenziato da una pluralità di agenzie neuronali, che si orientano e decidono in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che attribuiamo a noi stessi con la psicologia ingenua».
La natura parallela e distribuita del funzionamento cerebrale (ovvero il fatto che vi siano moduli e/o agenzie cognitive distinte dal punto di vista funzionale e architettonico- anatomico) fa infatti dubitare della natura unitaria dell’io [...]. Non soltanto la filosofia, d’altra parte, viene scossa da questi risultati. A venire minacciata in uno dei suoi snodi fondamentali è anche la stessa antropologia religiosa, e quella cattolica in particolare, nella misura in cui essa attribuisce alla persona umana la capacità di esercitare il libero arbitrio, controllando razionalmente le proprie decisioni e i propri atti (ed essendo, per questo, responsabile ovvero meritevole di lode oppure di biasimo). Per questo, a meno che non preferisca ignorare il profondo conflitto tra la visione scientifica del mondo e le categorie della metafisica tradizionale (inclusa l’idea che la libertà umana trovi fondamento nell’anima intesa come forma immateriale del corpo), il pensiero religioso sembra chiamato a ripensare alcune delle proprie categorie. Ma ancora più generalmente è lo stesso senso comune, il modo in cui ordinariamente concepiamo noi stessi, a venir messo in discussione dai sorprendenti risultati che arrivano oggi dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Molti autori sostengono oggi che il cosiddetto restringimento del soggetto agente sia prodotto anche dal cosiddetto bypassing, ossia il fatto che gli stati mentali non svolgono un adeguato ruolo causale rispetto alle nostre decisioni e alle nostre azioni. Ciò, tuttavia, non accade perché le intenzioni e gli altri stati mentali coscienti si debbano considerare come entità immateriali: per la maggior parte degli studiosi contemporanei, infatti, gli stati mentali coscienti sono “agganciati”, in modo non riduzionistico, ai loro correlati neuronali. Piuttosto, si ritiene che tali correlati non siano parte dei processi cerebrali che conducono alla produzione delle nostre decisioni e delle nostre azioni. Secondo alcuni filosofi, alfieri di un recente ottimismo circa l’illusione della libertà, questo fenomeno non deve però essere interpretato come diminuzione della dignità umana o come motivo di una crisi antropologica. Come la consapevolezza di non essere al centro dell’universo o al picco dell’evoluzione, così anche la constatazione che non siamo liberi (o almeno che non lo siamo nell’accezione consueta del termine) può essere accettata guardando ai suoi aspetti positivi. Se ancora un “illusionista” come Smilansky guardava con preoccupazione al diffondersi delle sue idee nella società, temendo scompensi a livello personale e comunitario, autori come Pereboom, Nadelhoffe, Waller, Caruso, Sommers vedono nello svanire dell’idea di libero arbitrio un guadagno in termini di superamento del retributivismo penale (che tanta sofferenza provoca nei condannati) e della rabbia morale, che avvelena le esistenze ponendo tutta l’enfasi dei rapporti interpersonali sul merito e la colpa di ciascuno, in base ai quali dare ricompense o punizioni.
Sulla stessa linea “spinoziana” si muovono gli studiosi che approvano la rinuncia alla nozione di giusto merito e si spingono a ipotizzare società più eque, superando la giustificazione degli assetti diseguali con i successi e i fallimenti individuali. Senza la responsabilità, un’idea che cade in assenza di libero arbitrio, si avrebbero atteggiamenti più compassionevoli, perché chi è toccato dalla cattiva sorte non ha colpe da scontare ma dovrebbe ricevere simpatia e sostegno da chi, invece, è stato soltanto più fortunato. Si passerebbe così dalla “politica del merito” al “principio di umanità”. Questa prospettiva teorica non si limita soltanto agli aspetti sociali, ma tocca l’esistenza umana in generale, al punto che oggi si parla anche di “neuroesistenzialismo” – ossia una concezione che, all’affermarsi delle prospettive naturalistiche sul mondo e sull’essere umano, potrebbe rimpiazzare le altre Weltanschauungen, portando gli individui a comprendere come la loro parabola terrena è sì in balia del caso, ma che essi possono ugualmente godere di moralità, bellezza, relazioni soddisfacenti e piaceri elevati nel rispetto reciproco. Numerose obiezioni sono state tuttavia mosse sia contro la tesi dell’illusorietà del libero arbitrio (la posizione compatibilista è ancora di gran lunga prevalente tra i filosofi) sia contro l’idea che tale illusione porti a conseguenze desiderabili. La tesi di Peter Strawson – secondo il quale, anche se si dimostrasse la verità del determinismo, noi dovremmo comunque privilegiare l’idea che le persone agiscano in base a ragioni delle quali possono e devono dare conto l’una all’altra in modo paritario – rimane infatti una delle riflessioni più influenti e persuasive del filone di pensiero che vede la libertà come un attributo fondamentale della nostra umanità.