Prendi la tesi estremista di un filosofo (forse) sconosciuto all’uomo comune. Privala delle argomentazioni (forse) non necessarie in tempi “poveri” di un dibattito pubblico approfondito. Trova una rivista che (forse) non si accorga della mancanza di originalità del testo e lo pubblichi come una novità. Ed ecco che i due ricercatori italiani che hanno sostenuto la liceità morale dell’infanticidio sulla rivista accademica "Journal of Medical Ethics" acquisiscono immeritata notorietà. E, ciò che più sorprende, grazie a un meccanismo più consono al mondo dei media che a quello universitario: il “polverone” della sparata ideologica che divide in fazioni, come nell’arena dei talk show. I due giovani (finora sconosciuti) studiosi sono Alberto Giubilini e Francesca Minerva. Mescolando ingredienti filosofici datati anni 70 (e acquistati nella bottega del filosofo utilitarista Michael Tooley) hanno cercato di dare consistenza quasi sillogistica a una teoria da far accapponare la pelle: quella per cui un neonato («proprio come un feto») non è davvero una persona, «non essendo ancora nelle condizioni di attribuire alcun valore alla propria esistenza». Di qui la conclusione choc: uccidere un bebè, o meglio, «abortire dopo la nascita» non è affatto «un atto immorale» e «dovrebbe essere possibile sempre», anche quando quel bebè è sano, ma i genitori non possono permettersi di crescerlo. Insomma, «non è sufficiente essere umani per ottenere il diritto inalienabile a vivere». Ci sono altre “priorità”.Contro le tesi sostenute nell’articolo è intervenuto il neurologo Gian Luigi Gigli, firmando su «Avvenire» del 28 febbraio un editoriale che abbiamo intitolato «Invasioni barbariche», seguito ieri da un articolo della scienziata e bioeticista Assuntina Morresi. Posizioni riprese (con qualche imprecisione su di noi...) dal quotidiano "Post on line" e da "Pagina3" di Radiotre Rai, a loro volta fortemente critici. La polemica ha travolto anche il sito della rivista, che ha ricevuto migliaia di interventi contrariati e di protesta, tanto da spingere il direttore Julian Savulescu a difendere con un editoriale la decisione di pubblicare l’articolo. Qui proseguiamo il dibattito con alcuni dei maggiori filosofi italiani.
Qualche tempo fa il filosofo e direttore del Centro di bioetica dell’Università Cattolica, Adriano Pessina (che in queste ore ha fatto sentire la sua voce sull’articolo choc pubblicato sul
Journal of Medical Ethics), aveva proposto una “moratoria” del concetto di persona. Troppa confusione, in merito. Troppa metafisica, anche.L’obiettivo – condivisibile – era quello di poter tornare a parlare e confrontarsi sui diritti dell’individuo (e di ogni individuo) evitando di “incappare” nelle trappole di certa filosofia morale. Come, ad esempio, quella di matrice radical-utilitarista che ha fatto capolino proprio dalle pagine del
Journal of medical ethics qualche giorno fa. Il punto di partenza (citato solo in nota) è il pensiero del filosofo Michael Tooley, che per la prima volta nel 1972 sostenne come un organismo sia una persona (e dunque abbia «un serio diritto alla vita») solo se possiede anche «la capacità di porre scopi» e «il concetto del sé come soggetto continuo nel tempo». Feti e neonati, s’intende, sono esclusi. Di qui la tesi (tutt’altro che nuova, e per moltissimi aberrante) che aborto e infanticidio siano pratiche del tutto accettabili.«Niente di più assurdo», esordisce
Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica ed Etica sociale all’Università Milano Bicocca: «Non solo ritengo farneticante l’idea di un aborto post-nascita – spiega –, ma non condivido nemmeno alcune ragioni che consentono l’aborto in gravidanza, come per esempio quelle “contraccettive”, per cui cioè l’interruzione di gravidanza viene usata come strumento di contraccezione». Il punto di partenza di Natoli è una concezione precisa dell’essere umano come «individualità definita»: «Quando c’è un soggetto costituito con la forma uomo – precisa – c’è anche un essere umano. E quella forma c’è, come ci dice la scienza, a partire dalla strutturazione del sistema nervoso centrale, che come sappiamo avviene nello stadio fetale». Per il resto, l’articolo dei due ricercatori italiani è tutto «un formicolare di eugenetica» secondo Natoli, il cui vizio di coscienzialismo porterebbe all’assurdo che «quando stiamo dormendo, dal momento che "non abbiamo coscienza di noi stessi nel tempo e non poniamo scopi", non siamo più uomini, e quindi potremmo essere uccisi».Assurdo su assurdo? «Il fatto che i due ricercatori – sottolinea un infastidito
Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza all’Università statale di Milano – si guardino bene dal precisare quando l’infante potrebbe diventare una persona a pieno titolo e cessare d’essere oggetto di eventuale eliminazione. Avverrà a due mesi? A due anni? Oppure a 30, a 60 magari? È evidente quali cupi scenari evochi una simile visione del mondo». Il ragionamento di Giubilini e Minerva, secondo Giorello, è poi una mera perversione persino delle logiche utilitariste, «secondo cui ogni essere umano è una risorsa per il bene collettivo e mai un peso». Ma è sull’aborto che Giorello pone l’accento, spiegando come il dibattito innescato dai due ricercatori possa portare a confondere l’interruzione di gravidanza (giuridicamente regolamentata in Italia) con l’infanticidio: «Se è purtroppo vero che in alcune circostanze l’arrivo di un figlio possa costituire un evento insostenibile per una madre o per una coppia – precisa Giorello –, vero è anche che nel nostro Paese esiste una legge molto attenta a regolamentare le circostanze di un interruzione di gravidanza. E che quest’ultima dovrebbe essere sempre scongiurata precedentemente da un uso altrettanto attento delle terapie anticoncezionali, senza bisogno di ricorrere alla fantascienza degna dei peggiori incubi di Orwell o Huxley». Un appello alla responsabilità dunque (concetto assolutamente assente nell’articolo dei due ricercatori italiani), che Giorello accompagna a quello al mondo accademico, affinché «si riprenda un confronto razionale sulla vita tra studiosi che della vita hanno concezioni diverse ma che si guardano bene, come in questo caso, di dettare i loro dogmi autoritari».«Sulla tesi di Tooley – spiega
Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale all’Università Vita e Salute-San Raffaele – s’è discusso per quarant’anni in ambito accademico: le sue argomentazioni sono state analizzate, confutate, in certi casi riprese e ulteriormente estremizzate. Spiace notare come nel caso dell’articolo dei due italiani questo dibattito sia stato del tutto ignorato». C’è un vizio di metodo per Mordacci, prima che di contenuto, nell’articolo choc "Aborto post-nascita: perché il neonato dovrebbe vivere?": «Quello di parlare per dogmi – continua Mordacci – dando per scontate tutte le affermazioni che si fanno. Niente di più sbagliato, in filosofia, dove si dovrebbe cercare sempre di argomentare e di trovare, a mio avviso, posizioni mediane per poter lasciare aperto e fecondo il dialogo e lo scambio di idee, su questi temi più che mai necessario».Entrando nel merito, le critiche a Giubilini e Minerva si fanno più dense. Per Mordacci è paradossale, per esempio, come nell’articolo venga completamente “azzerata” la figura della madre-donna: «La drammaticità dell’aborto non esiste qui. La madre agisce come un automa privo di coscienza morale, sia nell’aborto sia nell’eventuale infanticidio che, anzi, viene considerato anche meglio della possibile decisione di dare in adozione il figlio. Questo sì, un trauma, secondo gli autori». Ma l’aborto, dramma morale, è: «E che sia consentito giuridicamente non significa che moralmente sia innocuo», conclude Mordacci, secondo cui il feto è persona in quanto «inizio di una vita». Visione laica o cattolica dell’uomo, non importa. Di vita umana e di valore della vita umana, d’altronde, bisogna tornare a discutere, eccome. Affermando come queste prerogative «siano costitutive di ogni persona». Non ha dubbi nemmeno
Remo Bodei, che insegna Filosofia alla Ucla di Los Angeles: «Se dovessimo prendere alla lettera il principio affermato da questi studiosi, potremmo estenderlo anche a molte altre categorie oltre a quella dei neonati – spiega –. Qui si parte dal folle presupposto che la vita umana sia disponibile, ma in questo modo larga parte della nostra civiltà potrebbe essere eliminata». Una provocazione, forse «un mero esercizio del paradosso»: Bodei non trova ragioni per la sparata di Giubilini e Minerva. Ma una certezza ce l’ha: «È sul concetto di cura che siamo chiamati tutti a riflettere. E non si tratta – anche qui – di un concetto laico o cristiano, ma universale». C’è terreno davvero, forse, per una nuova, inedita stagione di dialogo.