Reportage. Nell'Orissa, cuore profondo e vivo dell'India tribale
Le aree tribali dell’Orissa sono caratterizzate dalla presenza di numerose minoranze etniche per secoli vissute in sostanziale isolamento
Anche l’India ha il suo Outback e sono in molti a ignorare la realtà tribale e persino aborigena del grande Paese asiatico che si perpetua in alcune delle regioni più impervie del Paese: nell’arcipelago delle Andamane, nell’estremo Nord-Est, oppure in aree degli Stati di Chhattisgarh, Gujarat, Jharkhand, Madhya Pradesh e Odisha (Orissa). In quest’ultimo, ad essere interessata è un’area estesa all’incirca la metà dello Stato, ovvero un quarto del territorio italiano, e la capitale Bhubaneswar, ne è la porta di accesso. Lo è perché fondamentale snodo stradale e ferroviario, oltre che scalo aeroportuale, ma anche per il suo Museo delle Arti e artigianato tribale che rende con equilibrio e concretezza il meglio che il mosaico della sessantina di gruppi etnici può esprimere e condividere. Molti i manufatti: non reperti di un tempo che fu, ma espressione di una tradizione ancora viva in popolazioni di origine diversa da quella indoeuropea che con una progressione durata secoli si impose da ben prima della nostra era su buona parte dell’India settentrionale e centrale, integrando dove possibile o altrimenti relegando in aree sempre più marginali le popolazioni preesistenti. Lasciandole per la maggior parte in un limbo che le invasioni, i regni, i pellegrinaggi e le principali vie di comunicazione hanno aggirato, affidando il loro ricordo al mito e alla leggenda. Fu un antropologo e etnologo inglese, Verrier Edwin, a “riscoprire” l’Orissa, l’antico e glorioso Kalinga, centro di diffusione del jainismo e del buddhismo prima della sua definitiva induizzazione attorno all’XI secolo senza che venisse a mancare uno straordinario sincretismo artistico e fosse alimentata una vocazione anche marinara che contribuì in modo sostanziale alla colonizzazione commerciale e culturale indiana del Sud-Est asiatico.
I mercati settimanali come quello di Amliput sono essenziale luogo d’incontro con le etnie, altrove problematico o limitato per legge - Stefano Vecchia
Fu merito di Edwin riportare alla luce – una luce positiva non inquinata da necessità di controllo, conversione o integrazione come precedenti iniziative di esplorazione incentivate dal potere coloniale – la molteplice identità etnica della regione e rivalutarne il ruolo nella storia. I suoi volumi, frutto di un decennio di impegno sul campo – in particolare tra le minoranze Juang, Baiga, Bondo e Savara – e pubblicati tra il 1948 e il 1955, non furono soltanto una lettura stimolante per gli specialisti e base metodologica per ulteriori indagini di studiosi stranieri e indiani, ma fornirono dati essenziali all’inserimento delle aree tribali nella nuova amministrazione indiana post-indipendenza. Al punto che allo studioso – che si era unito in matrimonio con una donna tribale e aveva condiviso per anni la vita dei villaggi – venne riconosciuta la cittadinanza della nuova Repubblica indiana.
Donna di etnia Bhatra. L’altopiano di Koraput ospita alcuni tra i gruppi tribali e aborigeni meno esposti alle influenze esterne - Stefano Vecchia
Oggi le minoranze sono il 22,1 per cento della popolazione dell’Orissa, e circa il 10 per cento dell’intera popolazione tribale del Paese. Un altro dato di rilievo, perché riflette una sostanziale “tenuta” delle etnie, è un incremento demografico maggiore di quello medio della popolazione indiana in anni recenti rispetto agli arretramenti indicati ancora nel censimento del 2001. Altro elemento di preservazione è il loro isolamento, in parte spontaneo, in parte per effetto della tutela ufficiale che calibra attentamente i rapporti con i non-tribali. Il punto d’incontro tra le due realtà e anche tra realtà tribale e gli stranieri che solo con difficoltà e in aree selezionate possono accedere ai villaggi, sono i mercati su cui convergono le produzioni agricole e artigianali delle etnie e i beni essenziali che loro non sono in grado di produrre per tabù. A cadenza settimanale, il mercato di Chati Kona per i Dongariya Kondh, quello di Onokudelli per i Bonda, quello di Kunduli per i Paraja, quello di Amliput per i Bhumia e i Bhattra... sono tutti caratterizzati da uno sfarzo di colori dei tessuti, dei manufatti, dei prodotti agricoli dispiegati perlopiù su teli stesi al suolo. Un colpo d’occhio straordinario, intersecato da bufali, capre, polli, vacche sullo sfondo di profumi, odori e suoni che portano a volte e con una certa leggerezza guide e dépliant turistici a equipararli a simili esperienze africane o oceaniche.
Donne Malliah Kondh. I Kondh, divisi in diversi sottogruppi, sedentarizzati e in parte cristianizzati mantengono molti usi tradizionali - Stefano Vecchia
I tribali e aborigeni dell’Orissa non sono tuttavia “relitti” della storia o protetti in riserve, accolgono con fastidio e a volte rifiutano l’ingerenza delle fotocamere e l’intrusione di estranei. Sono gruppi in grado di esprimere con piena dignità una diversità che non è marginalità, anche se nelle aree più facilmente raggiungibili alcolismo, tossicodipendenza, sfruttamento si stanno facendo strada. Il loro inserimento nell’elenco delle “Tribù registrate” previste dalla legislazione indiana dà alle minoranze etniche dell’Orissa diritto di cittadinanza e tutela, pur riconoscendone la diversità. Nulla di semplice o scontato nel sistema indiano, in cui il bilanciamento tra identità e diritti resta la prima sfida di ogni governo e, a volte, strumento per affermare la supremazia di alcuni, com’è il caso degli indù di casta in questi anni di governo nazionalista. Tuttavia sulle colline densamente forestate dell’Orissa la situazione sembra mantenersi sul piano della convivenza più che su quello della discriminazione. La pressione degli indù di casta elevata che procede dalla costa verso l’interno e che ha come obiettivo le terre e le risorse tribali (quelle forestali e minerarie anzitutto), viene in parte contenuta dalla legge, in parte dal controllo degli attivisti per i diritti tribali. In parte, ancora, dall’intermediazione di un’ampia popolazione di fuoricasta che, pur essendo in maggioranza indù, svolgono attività precluse agli indù di casta e si vedono affidate dalle minoranze attività, come quella di musici, messaggeri, vasai e altre utili ma estranee alla tradizione tribale. Un caso interessante di simbiosi a cui contribuisce la pur limitata cristianizzazione (il sette per cento stimato) dei due gruppi, senza una mescolanza, tuttavia, sul piano matrimoniale o della convivenza. L’isolamento tutela quindi non solo l’identità ma protegge da contaminazioni o intrusioni contrarie alla tradizione animista, salvo dove – ed è il caso del cristianesimo – provenga da religioni esse pure non connesse con la prassi induista e castale.