Letteratura. Nell'estasi di Oscar Milosz la fisica che verrà
O.V. de L. Milosz
Su uno dei più famosi racconti di Jorge Luis Borges, L’Aleph, sono disponibili almeno due testimonianze in aperto contrasto l’una con l’altra. La moglie dello scrittore, Maria Kodama, lo riteneva il resoconto di un’esperienza mistica effettivamente avvenuta, mentre per Alberto Manguel (fresco vincitore del premio Nonino) l’intenzione dell’autore sarebbe stata quella di allestire una raffinata e disincantata parodia di ogni eventuale visione extramondana, non esclusa quella del pur amatissimo Dante. La questione è destinata a rimanere insoluta, a meno che non venga intesa secondo la fattispecie della duplicazione, tema ricorrente in Borges e possibile criterio di lettura di tutta la sua opera.
Non ci sono dubbi, al contrario, per quanto riguarda le convinzioni di O.V. de L. Milosz, lo scrittore francofono di origine lituana principalmente noto nel nostro Paese per quella originale rivisitazione del mito di Don Giovanni che è il dramma Miguel Mañara (a lungo in catalogo da Jaca Book, è ora disponibile anche presso San Paolo con un commento di Franco Nembrini). Dal punto di vista esteriore, la biografia di Milosz sembrerebbe coincidere con quella di molti altri intellettuali della sua generazione. Nato nel 1877 da una famiglia di antica nobiltà (originariamente le sue generalità, in seguito abbreviate e francesizzate, sono Oskar Wladyslaw Milosz), cresce nel governatorato zarista di Minsk e nel 1899 si traferisce con i suoi a Parigi, dove si stabilisce definitivamente nel 1909, dopo un decennio di inquieta ed errabonda formazione. A partire dal primo dopoguerra, Milosz affianca all’attività di scrittore in lingua francese quella di rappresentante diplomatico della Lituania indipendente. Muore a Fontainebleau nel 1939, testimone di una stagione che, nell’intervallo tra i due conflitti mondiali, aveva fatto balenare il sogno di una cultura europea capace di cogliere la duplice eredità dell’Oriente slavo e dell’Occidente latino.
Fin qui, appunto, la successione dei fatti. Ma la vera cesura della vita di Milosz appartiene al dominio dell’invisibile o, meglio, della visione e della rivelazione personale. Il 14 dicembre 1914, verso le 11 di sera, il poeta è preso da un rapimento estatico nel corso di quale percepisce e comprende l’intima natura dell’universo. Sintesi di questo sistema occulto è la trinità indissolubile di tempo, spazio e materia espressa dal movimento, in una formula che per molti aspetti sembra anticipare la teoria della relatività generale che Albert Einstein renderà pubblica solo un anno tardi. Nei vari scritti che da allora Milosz dedica alla descrizione di questa illuminazione sapienziale, l’analogia con i progressi della fisica contemporanea è più volte sottolineata e rivendicata, in una sorta di illustrazione plastica del dispositivo – già proclamato da Arthur Rimbaud – per cui la scienza procederebbe più lentamente della poesia. Questa seconda fase della produzione di Milosz, fortemente connotata sotto il profilo filosofico e non esente da contaminazioni esoteriche, è da qualche tempo oggetto di riscoperta grazie all’iniziativa della casa editrice Medusa, che ha affidato alla specialista Laura Madella un progetto inaugurato nel 2021.
Insieme con Ars Magna (che contiene tra l’altro la fondativa Epistola a Storge, relazione dettagliata dell’evento del 1914) il pubblico italiano ha così avuto a disposizione gli scritti raccolti in La chiave dell’Apocalisse e il romanzo giovanile L’amorosa iniziazione, che già nel 1910 suggeriva un’interpretazione della vicenda di Don Giovanni in prospettiva spirituale. A questi titoli si aggiungono adesso Gli Arcani (sempre a cura di Laura Madella e con una postfazione di Riccardo De Benedetti, Medusa, pagine 144, euro 17,50), nei quali Milosz espone la sua “teoria del tutto” prima in forma poetica e poi attraverso un fitto autocommento. Si tratta di una pratica non inusuale nella tradizione mistica (basti pensare, per esempio, al precedente di san Giovanni della Croce), che Milosz recupera in piena consapevolezza e con l’obiettivo di propiziare l’avvento della Chiesa Cattolica Apostolica Universale, della quale si trova a essere il profeta. Gli Arcani è, insomma, un libro da leggere due volte, e non soltanto perché il dettato del poemetto viene puntualmente riprodotto in sede di esegesi. Mai come in questo caso la prosa di Milosz procede con l’impetuosità di un’onda nell’oceano: o si riesce a cogliere l’occasione di cavalcarla, o si finisce per esserne travolti. In ogni caso, vale la pena di tentare l’impresa, preparandosi a fare i conti con una simbologia che attinge a linguaggi disparati, alternando aforismi folgoranti (« Dio è Re. Non un tiranno. I suoi doni non li impone») a riflessioni di argomento artisticoletterario.
Fra gli autori più ammirati c’è Goethe, al quale Milosz si richiama spesso, tra i più detestati il falso metafisico Edgar Allan Poe, ma Gli Arcani tutto può essere considerato fuorché un vademecum di critica. Lo si comprende bene nelle pagine in cui, forte dei suoi studi di ebraistica, Milosz si interroga sul motivo per cui la prima parola della Scrittura, Bereshit, cominci con la lettera beth, manifestazione del principio materiale, e non con l’aleph, che rinvia invece all’elemento spirituale. Ma su questo, forse, sarebbe necessario ascoltare il parere di Borges.