Mantova. Alicia Kopf nella terra del fuoco che genera gli affetti
La scrittrice e artista catalana Alicia Kopf, tra gli ospiti di Mantova
Una dozzina di anni fa, Alicia Kopf ha cominciato a interessarsi del ghiaccio. «Era il 2008 – ricorda la scrittrice catalana –, avevo appena completato il mio percorso di studi ed ecco che si scatenava la crisi economica globale. Sinceramente, neppure la mia vita privata era in una fase troppo felice. Avevo bisogno di pensare a qualcos’altro. Perché proprio al ghiaccio non saprei dirlo, ma di sicuro fin dall’inizio mi sono sentita molto determinata. Poi, con il passare del tempo, la ricerca si è focalizzata sulla storia delle esplorazioni polari». Una ricerca che dura ancora adesso in ambiti e con strumentazioni differenti, dalla letteratura all’arte multimediale, e che ha trovato la sua manifestazione più compiuta in Fratello di ghiaccio (traduzione dallo spagnolo di Livia De Paoli, Codice, pagine 256, euro 16), libro singolare e affascinante, nel quale le imprese di Scott e di Shackleton si intrecciano con le vicende familiari dell’autrice, figlia di genitori separati e sorella minore di M, affetto da un disturbo dello spettro autistico particolarmente accentuato: ormai adulto, fa fatica a prendere la minima iniziativa anche nelle attività più semplici, come sedersi a tavola oppure sdraiarsi sul letto. «Gli ho regalato una copia del libro, credo che si sia reso conto della dedica che gli ho scritto – spiega Alicia Kopf, che ieri ha presentato Fratello di ghiaccio al Festivaletteratura in un incontro con Claudia Durastanti ed Elisabetta Bucciarelli –. So che non lo ha letto e non lo leggerà, ma per me è già importante che ne percepisca la presenza come oggetto fisico». Personaggi storici a parte, tutte le figure convocate nel libro sono identificate solo con la lettera iniziale del nome proprio. L’unica di cui il lettore si illude di conoscere le generalità è la stessa Alicia Kopf, ma si tratta di un effetto ottico, dato che quello che campeggia in copertina è in realtà uno pseudonimo (all’anagrafe l’artista risponde al nome di Imma Ávalos Marqués). «Il mio non è un resoconto autobiografico in senso stretto – sottolinea –. Il genere è semmai l’autofiction, che è un resoconto deliberatamente parziale, dato che tutto viene visto e riferito nella prospettiva di chi si prende l’onere di narrare. Limitarmi alle iniziali mi è sembrato un espediente utile per far intendere questa peculiarità del testo. E anche per non prevaricare sulle altre persone di cui scrivo, come mio fratello, i miei genitori, i miei amici». Artista visuale con un curriculum prestigioso, anche in Fratello di ghiaccio Alicia Kopf inserisce numerose immagini, compreso un fotogramma da Stromboli di Roberto Rossellini: nella rivisitazione del libro, la protagonista, interpretata da Ingrid Bergman, non si allontana dalle falde del vulcano, ma si inoltra giù per il cratere, fino a ricomparire dall’altra parte del mondo, in Islanda, nello stesso luogo in cui Jules Verne aveva fatto cominciare il suo Viaggio al centro della Terra. «È il metodo di lavoro – afferma l’autrice –. Mi servo di strumenti espressivi diversi e di ciascuno cerco di sfruttare le caratteristiche specifiche. L’obiettivo è di essere il più leale possibile nei confronti dell’esperienza che voglio testimoniare e che, in questo caso, è particolarmente complessa». In Fratello di ghiaccio si parla di iceberg e di slitte, della difficoltà di stabilire con precisione la posizione dei Poli e della conformazione delle coste scandinave, ma il racconto rimane imperniato sul nodo degli affetti. «Quella dei viaggi artici e antartici è una storia prevalentemente maschile – sottolinea Alicia Kopf –, motivo per cui mi è parsa straordinariamente adatta per evitare il rischio di sentimentalismo che incombe sempre sulle rievocazioni familiari. Nelle vicissitudini degli esploratori c’è una durezza esplicita, anche in termini di competizione, che permette di alludere alle ferite nascoste di tanti contesti domestici». L’intero libro, ammette l’autrice, non fa altro che girare intorno a una domanda che ancora attende risposta. «Sempre che, una volta trovata, quella risposta possa essere riportata – dice –. La questione fondamentale, a mio avviso, riguarda la natura dell’amore: che cosa veramente significhi voler bene a qualcuno, fino a che punto sia lecito spingersi nella conoscenza dell’altro. Al momento la mia convinzione è che tutto si giochi nell’equilibrio tra conoscere in profondità e rispettare nella diversità. Io me ne sono resa conto vivendo con mio fratello, ma sono persuasa che valga per ogni altro legame, per ogni altra relazione». Sarà questa la regola di base della quale, a un certo punto, si sente la mancanza in Fratello di ghiaccio, l’accorgimento minimo che permetterebbe di evitare la trappola descritta da Lev Tolstoj nelle prime righe di Anna Karenina (le famiglie felici che si somigliano tra loro, quelle infelici imprigionate nei propri errori solitari)? «Molto dipende dal ruolo che ciascuno si trova a ricoprire – risponde Alicia Kopf –. Se qualcosa mio fratello mi ha insegnato, è appunto questa percezione della rete di aspettative che collegano tra loro i componenti di una famiglia. Ciascuno ha la sua storia, che è in parte determinata da quella degli altri. I miei genitori, per esempio, appartengono alla generazione immediatamente successiva a quella che ha vissuto il trauma della guerra civile. Sono persone che hanno sempre avuto difficoltà a misurarsi con il passato. L’educazione agli affetti, in sostanza, non ha mai fatto parte del loro orizzonte. Ci hanno provato, come e fin dove potevano. Se non altro, hanno liberato me e i miei coetanei dall’illusione che un padre e una madre debbano essere per forza buoni, amorevoli, attenti. Chi, come me, è nato negli anni Ottanta ha avuto la possibilità di esplorare in modo più ampio e approfondito il mondo delle emozioni. In un certo senso, è stata la nostra traversata del ghiaccio: un lungo cammino nel freddo, in attesa di scoprire il nucleo incandescente della realtà».