Ma fu durante il sequestro che la mia fede venne messa veramente alla prova, assumendo nella mia vita una rilevanza che prima avrei ritenuto impensabile. Per tutti i giorni di quei 6 anni in cui rimasi nella foresta, privata della mia libertà, fu la fede a mantenermi in vita. Sono certa che non sarei riuscita a sopravvivere a quell’incubo, se non avessi avuto una profonda convinzione religiosa. Fin dai primi giorni della prigionia decisi di accettare senza riserve tutto quello che sarebbe successo, limitandomi a chiedere a Dio di concedermi le forze per affrontarlo. A differenza di altri prigionieri che, in preda alla disperazione, arrivarono a pensare al suicidio come a una possibile soluzione per porre fine a quell’inferno, non mi passò mai per la mente l’ipotesi di togliermi la vita, perché per me l’esistenza è un dono di Dio: perciò spetta all’uomo disporne. Era tanto che desideravo leggere la Bibbia interamente e il sequestro mi offrì l’occasione perfetta, dato che disponevo di tutto il tempo possibile. I guerriglieri non fecero alcuna difficoltà a procurarmene un esemplare. Ogni giorno mi prefissavo un certo numero di pagine come obiettivo, e leggevo in media per 7 o 8 ore al giorno. In capo a un mese l’avevo già terminata, e lo considerai un grande risultato. Era come se avessi compiuto un viaggio esotico, di quelli che si fanno soltanto una volta nella vita. Durante il giorno, mentre facevo il bagno, a volte cantavo alla Madonna le canzoni che avevo imparato al collegio. La verità è che ne ricordavo poche per intero, ma non mi importava: mentre cantavo, mi pareva che il mio spirito si innalzasse, allontanandosi per qualche istante da quelle miserie. So che ai militari prigionieri nel nostro stesso accampamento piaceva ascoltarmi cantare, perché li aiutava a sentirsi meno soli. E i guerriglieri in genere non mi facevano osservazioni. Naturalmente c’era sempre chi trovava da ridire: una volta qualcuno arrivò perfino a fischiarmi, ma poi tutto tornò tranquillo. Una volta, uno dei guerriglieri che ci sorvegliavano, un tipo giovane che sembrava educato e gentile, mi chiese, dopo aver raccolto le pentole del pranzo: «Clara, ma lei per chi canta?». Gli risposi che cantavo per mio papà Dio, e gli spiegai che mi avevano insegnato ad amare Dio come se fosse mio padre. Lui replicò: «Se Dio esistesse, stia sicura che lei non sarebbe prigioniera». Io ribattei che non ero certo prigioniera per volontà di Dio, ma per volontà dei suoi capi, che non avevano neppure la più pallida idea del perché stavano al mondo. E conclusi dicendogli che quando in futuro avesse avuto bisogno di un aiuto – perché sicuramente un giorno o l’altro ne avrebbe avuto bisogno – chiedesse al Signore di illuminargli il cammino. (...) Quando ormai ero libera, uno dei primi libri che mi regalarono fu quello che Benedetto XVI aveva scritto su Gesù di Nazareth. Lo lessi quando ero convalescente dopo un’operazione: per ovvie ragioni, ciò che più mi colpì fu il tema della libertà dell’uomo. Il Santo Padre analizza la vita di Gesù e la legge della Torah, citando anche la Lettera ai Galati: «Siete stati chiamati alla libertà... però non prendete la libertà come pretesto per i vostri appetiti disordinati... la libertà è libertà per il bene, libertà che si lascia guidare dallo spirito di Dio. Ora, il male esiste ed esiste Dio. Però il male proviene dal cattivo uso del libero arbitrio degli uomini». Io applicavo quella frase al caso concreto delle Farc, pensando che certamente sono, quanto meno, degli irresponsabili, dato che la libertà non dovrebbe mai essere utilizzata per schiacciare altre persone sotto il giogo delle armi, mediante la pratica del sequestro e la detenzione forzata. Non c’è stato un solo momento durante la prigionia in cui la mia fede in Dio e nella sua profonda misericordia abbia vacillato.