Reportage. Nel cimitero ebraico di Praga, dove il tempo è totale
Il cimitero ebraico di Praga
Attraversando la vertigine di nomi che affollano il memoriale della Pinkasova synagoga si può giungere nel luogo forse più incredibile di Praga. Un contrappeso alla città più indefinitamente eteromorfica che io abbia visto, baccello appena schiuso di realtà apparentemente contrastanti come l’utopia della pietra filosofale e il dramma di Jan Palach, le leggende dell’esoterismo magico e il cattolicesimo più tradizionale, l’orologio astronomico e il mondo di Kafka.
Non si percepisce immediatamente che si sta entrando in un mondo diverso. Dietro il diaframma invisibile e decisivo decreta una separazione senza ritorno, superato il quale i palazzi e uffici adiacenti si congelano come icone di un mondo effimero e lontano. Il cimitero ebraico di Praga misura il tempo e lo spazio in un modo tutto suo che non ammette repliche o discorsi, offrendosi unicamente alla contemplazione e meditazione di chi non può essere altro che pellegrino attonito.
È un po’ come entrare in una curiosa camera iperbarica che dissolve ogni embolo di forma e materia per far spazio alla piena di fango che irrora di nuova vita il torrente circolatorio sopito del Golem. Un gigante calcato dentro il tumulto inespresso di tutte le vite che raccoglie, una milizia di pietre che sembrano uomini, comunità intere sprofondate nella terra che ribolle sotto la spinta di una esplosione negata e imminente. Questo strano luogo mi porta dritto nel mito del rabbino Loew, che aveva intuito il segreto della vita trasfusa dalla parola “verità” scritta nella stessa carne-fango della sua creatura.
Praga è per definizione la città del mistero, anche se il suo prezioso cristallo dicroico è decaduto in parte nel caleidoscopio dei cocci di bottiglia colorati, sacro graal per imponenti folle di turisti che la attraversano ogni giorno con i loro rituali ciclici e qualche volta un po’ ridicoli, come la puntuale processione di fronte all’orologio più famoso del mondo. La sua liturgia oraria raggiunge il climax con la folgorante apparizione finale del galletto che sembra prendersi gioco di chi sta sotto a naso in su nell’attesa di una qualche rivelazione a buon mercato da immortalare nel proprio cursus honorum digitale. Qui, nel giardino del Maharal di Praga non vi è traccia di contaminazione. Non potrebbe esserci. Quando entri in quel piccolo pezzo di terra, così denso da apparire impenetrabile, ti dimentichi del resto. Lo Starý židovský hrbitov prende possesso di tutta la scena con il suo corpo muto e molteplice. Non riesco a individuare una emozione sopra le altre. Questo luogo è oltre l’emozione, è un luogo del contatto. Nucleo della città che pare assorbire luce e suoni provenienti dalla 17. listopadu, strada adiacente non proprio secondaria, dichiarando un primato ineludibile e intangibile che non so definire, una forza senza nome come senza identità era il golem di Rabbi Loew.
Dire che qui il tempo si ferma è una banalità da cartolina. Qui non vi è nulla della cartolina. Qui tutto parla di essenza. Una essenza compressa oltre l’immaginabile che rimescola le singolarità di cui si nutre e cui dà forma in un gorgoglìo di polvere e muschio, di terra e corpi dimenticati, pegno di un riscatto duraturo, una essenza materna e incomprensibile, impossibile da abbracciare in tutta la sua potenza, la cui vibrazione si espande molto oltre le mura che tentano di contenerla.
Nell’antico cimitero ebraico di Praga il tempo non si ferma mai: scorre tutto contemporaneamente a se stesso come in una sovrapposizione infinita di momenti che finiscono per coincidere nell’unico presente, nell’unica massa ponderosa e inamovibile di questo corpo di corpi.
Intenso? Commovente? Lasciamo la commozione a ciò che è andato e che da qui invece non si è mai mosso, sommandosi strato dopo strato, pietra dopo pietra, arbusto dopo muschio. Dichiarazione di appartenenza, aspersione amniotica di un parto negato che è fondamento della città. Triste? Neanche. La tristezza è in buona parte debolezza mentre questo posto è una celebrazione di forza, una forza compressa e imprevista che sembra venire da chissà dove, mentre è frutto del vortice che noi stessi, i nostri agglomerati urbani e le nostre società sono in grado di generare per poi venirne polverizzate. Quel vortice si snoda attraverso una miriade di pietre tombali, dichiarazioni di esistenza perenne, sfida alle dimensioni. Tutte diverse, tutte incise con scritte che sono la stessa scritta: io esisto.
Ho l’impressione forte di una continuità con lo sterminato elenco di nomi del Memoriale delle vittime della Shoah che anticipa il cimitero, è come se il fiume carsico delle presenze avesse trovato modo di riprendersi un corpo; il nome attraversa la terra e diventa pietra. Il golem, contraddizione di una esistenza priva di coscienza, alla fine si è ribellato e il suo grido soffocato attraversa questo posto, reclamando coscienza e vita, per il fango e attraverso il fango. L’antico cimitero ebraico di Praga è la rivolta perenne contro la umiliazione di quel fango vitale cui viene negata dignità. Una volta vivo non può più spegnersi. La parola “morte” con cui Loew privava della vita la sua creatura, qui ha perso definitivamente la sua forza e il suo destino, per quanto la macina degli uomini, che sfugge loro continuamente, si adoperi a sminuzzare, tritare, sbriciolare ciò che ha la ventura di trovarsi sulla strada dell’inspiegabile istinto di distruzione.
Questo luogo è uno scrigno singolare della logica ribaltata: ciò che non è degno di attenzione e di coscienza per quel mondo di superficie appena là fuori, qui è il tesoro, il magma che scuote le viscere della città che si erge imperiosa nella sua superbia, vuota della terra che pure la sostiene, che la fa sussultare e che ne decreterà la fine.