Idee. Nel distacco la promessa di nuovo inizio
Il Ritorno del figliol prodigo del pittore olandese Rembrandt
«Così viviamo, prendendo sempre congedo» recita l’ultimo verso dell’ottava Elegia duinese di Rainer Maria Rilke. E un altro grande poeta tedesco, Herman Hesse, nella poesia Gradini scrive: «Dovremmo giocosamente passare di stanza in stanza, / senza a nessuna aggrapparci come a una casa». Per il noto teologo tedesco Anselm Grün sono due spunti formidabili per il suo ultimo libro tradotto in Italia, Distacchi (Edizioni Paoline, pagine 318, euro 22). Secondo il monaco benedettino, priore delll’abbazia di Münsterschwarzach, in Baviera, «nel congedo è racchiusa anche la promessa di qualcosa di nuovo», per cui quando si lascia una città, un lavoro, persino una relazione affettiva, ciascuno di noi deve trarne l’occasione per un cambiamento di vita. Grün è consapevole che dire addio a qualcuno o a qualcosa comporta anche dolore e nel volume si sofferma a lungo su due circostanze dell’esistenza che provocano sofferenza, la separazione fra coniugi e la morte. E non smette mai di chiedersi «qual è il modo giusto di dire addio, nella consapevolezza che dovremo continuamente congedarci da qualcosa». Il distacco rientra nella realtà quotidiana, come nel caso dei migranti che lasciano il paese d’origine in cerca di migliori condizioni di vita e che non sempre trovano accoglienza adeguata, ma che molto spesso finiscono per coprire un’esigenza lasciata scoperta da noi europei: si pensi alle badanti che si prendono cura dei nostri anziani e che hanno lasciato in patria figli e mariti. Oppure, come si accennava, quando una coppia si separa. Grün racconta il suo aiuto verso tante donne che sono state abbandonate dal loro coniuge e che faticosamente riescono a rifarsi una vita. Scoprendo quanto sono preziose, attraverso un lavoro su se stesse, la vicinanza di amici veri, di psicologi o sacerdoti, possono ricucire la ferita che hanno subito.
L’abate sollecita ad abbandonare quelle che possono essere definite relazioni tossiche, che si esprimono in comportamenti manipolatori e a volte violenti: una situazione che colpisce il mondo femminile in particolare. Ma che può toccare non solo il rapporto fra due partner, ma anche la logica del gruppo, che sia una banda, un clan, una gang ma anche una setta religiosa. Nella sua attività di accompagnamento spirituale, Grün enumera alcuni consigli che fornisce a chi subisce un lutto. Innanzitutto, l’adesione ai riti della Chiesa, vissuti non solo come un segno formale ma come una realtà viva che consente di trovare consolazione. Poi, la vicinanza a parenti ed amici e, infine, quando inevitabilmente ci si trova soli a fare i conti con la scomparsa del compagno o della compagna della propria esistenza, lo scavo nel ricordo. Scrivere una lettera in cui mettere su carta quello che era rimasto da dire rivolgendosi al proprio caro e poi immaginare la sua risposta: questa è un’opportunità concreta di fare i conti col proprio dolore, versando lacrime ma trovando anche un po’ di pace, sapendo come ha scritto C.S. Lewis che chi ci ha lasciato non vuole vederci sopraffatti dalla tristezza. Grün ha anche parole positive verso i cambiamenti che si sono realizzati, secondo la sua esperienza, nelle case di cura e negli hospice, prendendo atto che «è invalsa una nuova cultura della cura terminale». Anche le pompe funebri hanno cambiato stile e creato spazi meno freddi e angusti, nella consapevolezza che «alla dignità della persona scomparsa competono esequie decenti». Poi, viene ricordata l’importanza della visita al cimitero: «Curare esteriormente una tomba – dice – è un segno di amore: un amore più forte della morte, capace di estendersi oltre la sua soglia».
Ma c’è anche il distacco dalle cose e dal possesso: pare che ogni cittadino europeo possegga mediamente più di 10mila oggetti. Una nota designer ha fatto un esperimento e ha verificato che fra tutte le cose che possiede solo il 15 per cento le sono davvero utili. Tutto ciò diviene evidente quando si fa un trasloco: quanti oggetti non indispensabili abbiamo accumulato! A questo proposito, il monaco ricorda una sinologa che prima di trasferirsi in Cina ha fatto una lotteria gratuita delle sue proprietà domestiche, e un giornalista che ha deciso di rinunciare all’automobile. Due buone pratiche di libertà. Pure Esther de Waal, famosa autrice spirituale inglese, in un altro recente libro, L’arte di lasciare la presa (Qiqajon, pagine 180, euro 16,00), prende di petto la questione, con una serie di riflessioni maturate durante il lockdown vissuto nel biennio della pandemia. Ed enumera quei luoghi – case, mobi-li, giardini – in cui abbiamo vissuto e ai quali siamo stati legati in maniera pressoché indissolubile. «Siamo tutti topofili», ha scritto Timothy Radcliffe, cioè uniti a luoghi «in cui poter essere piantati e fiorire ». Dai quali è difficile poi staccarsi, così come dai figli che una volta diventati adulti lasciano la dimora familiare per crearne un’altra. De Waal cita la poesia Allontanarsi di Cecil Day-Lewis: «L’egoismo inizia con un allontanarsi / e l’amore si dimostra nel lasciar andare». Fra rimandi continui a teologi e scrittori, da Thomas Merton a Flannery O’Connor, da Dietrich Bonhoeffer a Etty Hillesum, l’autrice delinea la strada del perdono (»il perdono di me stessa e il perdono di quanti hanno peccato contro di me») come il miglior percorso da intraprendere in questa «arte di lasciare la presa». La via indicata da Gesù nella parabola del figliol prodigo o nell’incontro con l’adultera che sta per essere lapidata.