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Mostraci il tuo volto. L'eremita Vermorell: «Negli amici ho trovato l'amicizia di Dio»

Roberto I. Zanini domenica 7 novembre 2021

Frédéric Vermorel sulla soglia del suo eremo in Calabria

«Quando sono arrivato qui era una struttura abbandonata da 51 anni, piena di pipistrelli e di ratti che si erano mangiati tutto, anche i paramenti sacri e i lezionari, ma appena l’ho vista ho avuto la certezza di essere a casa». L’eremita dal volto sereno e i gesti pensosi ci ha appena accolto sulla porta dell’Eremo di Sant’Ilarione, posto su uno sperone di roccia a dominare un’ansa della Fiumara Àllaro che scende dalle Serre e attraversa una delle zone più aspre della Locride per uscire in mare alle porte di Caulonia. Si chiama Frédéric Vermorel, è francese, ha 63 anni e vive qui dal 2003, consacrato eremita diocesano dall’allora vescovo di Locri-Gerace Giancarlo Maria Bregantini. Poco più oltre la soglia del nostro incontro, a termine di una breve rampa di scale, c’è la piccola chiesa che chiude l’antica struttura in pietra, nella quale trovano spazio anche alcune spartane 'celle' per gli ospiti. Qui, fra rocce, boschi, cinghiali, silenzio e il buio totale della notte, giungono tutto l’anno persone che chiedono di poter vivere qualche giorno l’ora et labora dell’eremita. E in questi anni Frédéric (la sua storia è raccontata in un libro-diario uscito di recente per le Edizioni Terra Santa: Una solitudine ospitale) è diventato un riferimento per tanti: «Accolgo e ascolto», dice mentre lungo il corridoio che collega le stanze dell’eremo ci conduce nello studio pieno di libri e denso di preghiera stratificata da secoli di silenzi monacali. Quando, poi, sottolinea che la sua «spiritualità si radica negli incontri» non puoi non pensare che in quel momento tu sei il suo incontro, il «sacramento del volto di Dio», un po’ come gli angeli alle Querce di Mamre.

Frédéric ha una patologia che gli impedisce di vedere il contorno delle figure e, nei fatti, concentra il suo guardare sul viso dell’interlocutore come se non ci fosse altro che il volto delle persone, ognuno «a comporre il Volto di Dio». «Arrivano uomini e donne con ferite profonde nel cuore. Chiedo loro soltanto di impegnarsi in qualche lavoro. Senza lavorare non si vive l’eremo e non si trova la strada. Poi c’è il silenzio alle 21. Tante volte li ho visti incontrare la pace nel giro di pochi giorni». Nei fatti Sant’Ilarione è uno di quei luoghi in cui la frontiera fra il visibile e l’invisibile diventa impalpabile. E la strada è nel seguire e nel nutrirsi dei gesti dell’eremita per il quale, te ne accorgi presto, non c’è azione e non c’è parola che non siano immersi nella preghiera.

Come è arrivato qui?

È stato un percorso complicato. A 15 anni ho cominciato a frequentare la comunità di Taizé e ho conosciuto Frère Roger Schutz. A 21 ho fatto il primo viaggio nel Sud Italia e fu uno schiaffo per il borghese che ero. Ho girato il Mediterraneo, sono stato nel Sahara sulle orme di Charles de Foucauld, in Brasile. Quando è maturata la vocazione monacale sono entrato nella Comunità monastica di Santa Maria delle Grazie a Rossano Calabro, dove sono rimasto per 12 anni. Poi sono tornato in Francia ospite di Jean Vanier alla comunità dell’Arca. Ho studiato teologia in Belgio. In visita a Caorle nella comunità dossettiana fondata da don Giorgio Scatto, proprio don Giorgio mi disse che dovevo andare in Calabria e mi consigliò di incontrare il vescovo Bregantini. Mentre mi diceva queste cose avevo la sensazione che non fosse lui a pensarle e, tempo dopo, lui stesso me lo confermò.

E Bregantini?

Lo incontro il 5 dicembre del 2002. Gli racconto il mio percorso vocazionale poi gli dico: «Cerco un vescovo, una benedizione e un luogo dove stare». Lui risponde: «Ci sarebbe un antico monastero». Quando l’ho visto ho capito. Ospite di una piccola comunità di suore qui vicino per sei settimane ho lavorato all’eremo per ripulirlo e sistemarlo. Ho dormito qui la prima volta l’8 giugno del 2003, vigilia di Pentecoste. L’8 giugno di 12 anni prima era morto il mio migliore amico, il gesuita padre Rodolfo Benevento. Era il mio confessore, eravamo grandi camminatori, le confessioni le facevamo camminando e le misuravamo a chilometri: una confessione di 8 chilometri, di 10 chilometri... Dopo l’assoluzione si tornava in silenzio attraverso le montagne calabresi.

Confessore e amico: un raro connubio.

Spesso avevamo meditato il ciclo di Elia, in particolare quando Eliseo gli chiede due terzi del suo spirito. Quando padre Rodolfo è morto ho chiesto due terzi del suo spirito. Oggi ho la certezza di essere qui perché lui è diventato il mio intercessore e con lui tante persone che hanno attraversato la mia vita come Maria Luisa Donadio, la trasparenza fatta donna, morta di sclerosi multipla.

Tante persone, tanti volti...

...Tanti aspetti del volto di Dio. Per me gli amici sono il sacramento dell’amicizia di Dio. Quando penso ai miei amici dell’Arca questo mi è molto chiaro: loro sono 'i guaritori feriti', come scriveva Henri Nouwen in un libro del 1982.

Guaritori feriti?

Le persone con gravi handicap hanno il dono della riconciliazione. Ricordo Marie Josè, incapace di camminare e di parlare, con episodi psicotici violenti. La accompagnavo alla messa con la carrozzella. Riceveva la Comunione sulla mia spalla e avevo la netta percezione della coincidenza del corpo crocifisso di Gesù col corpo di Marie Josè. È l’identità eucaristica di una persona con handicap: un corpo consegnato. Sono cose che ti segnano la vita.

Una vita segnata dagli incontri...

Ripeto, la mia spiritualità è fondata negli incontri. La mia teologia è trinitaria, radicata nella carne, nella storia. Il reale è superiore all’idea, trabocca rispetto ai concetti. Ricordo che in Brasile, ospite del Monastero dell’Annunciazione a Goias, andavo a trovare la mamma di uno dei ragazzi col quale avevo fatto amicizia. Aveva sette figli di cui uno con handicap e una delle figlie si era trovata incinta giovanissima. Il marito beveva e il rigagnolo che portava la fogna del quartiere le invadeva la casa quando pioveva un po’ di più. Un giorno le chiesi come facesse a sorridere sempre. Rispose: «Dio è sempre con noi». Primo schiaffo! Aggiunse: «E se io non sorridessi, mio marito e i miei figli potrebbero dimenticarlo». Secondo schiaffo. Questa è la regalità dei poveri.

Incontri che sono grazie.

Appena arrivato a Sant’Ilarione mi presento al mio parroco, qui vicino, nel paese di San Nicola. Arriva una donna piccolina, con gli occhi azzurri e mi chiede: «Chi sei tu?». «Il monaco che vive a Sant’Ilarione». «Oggi vieni a mangiare da me. Hai la macchina... Bene! Allora accompagni me e Carmela, che mangia con noi». Maria era la donna più facoltosa del borgo ma anche la vera autorità morale. Aveva dato lavoro a tanta gente. A casa aveva ospitato fino alla morte di lui un barbone che aveva accudito come un padre. Carmela, la sua grande amica, non era stata amata in famiglia. A un mese era caduta nel fuoco, a 12 anni era stata violentata. Aveva tre figli da uomini diversi. Quando lavorava per i genitori di Maria lei le portava da mangiare di nascosto. La più ricca e la più povera del paese... Devo molto a quelle due donne.

Altri due volti del Volto di Dio?

In fondo è facile incontrarlo nelle persone. Basta lasciarsi muovere e commuovere con loro. Se la Parola entra in risonanza con la vita può dare tutti i suoi frutti. La parola illumina la vita e la vita illumina la Parola. Allora la vedova di Sarepta si identifica con un volto concreto... e capisci quante volte hai vissuto il miracolo dei pani e dei pesci.

Il Volto è anche nelle brutte storie?

Ho conosciuto un ragazzo di 16 anni: una vita di abusi subiti, ma era lui a sentirsi «sporco fin nell’anima». Lì ci vuole tempo per trovare Cristo. Spiritualmente riesci a trasformare le ferite in feritoie, ma continuano a sanguinare. E non basta aver perdonato. Devi mettere le tue piaghe nelle sue. Ma come fai a spiegarlo? Come lo conduci per mano a questa comprensione? Il Volto è lì che ci aspetta. Eppure due donne macinano alla mola, una viene presa e l’altra lasciata... Perché? Una ha accettato di vederlo e l’altra no? Contemplare queste cose dà le vertigini. Lì c’è la nostra libertà. Lì ci siamo noi.