Pallacanestro. Nba a Disney World: i giganti nella bolla
LeBron James, 35 anni, fuoriclasse dei Los Angeles Lakers
Dunque, dove eravamo rimasti? Se parliamo del grande basket a stelle e strisce il nastro deve essere riavvolto fino allo scorso 11 marzo quando la scoperta del primo giocatore positivo al Covid-19 spinse la Nba a “stoppare” il campionato statunitense. La notizia della positività di Rudy Gobert degli Utah Jazz, arrivò quando la sua squadra si apprestava a sfidare a Oklahoma City i Thunder di Danilo Gallinari. Ma l’incontro non ebbe mai inizio. Durante il riscaldamento lo speaker annunciò: «A causa di circostanze impreviste, la partita è stata rinviata ». Fischi e sconcerto sulle tribune, l’America era ancora ignara del ciclone sanitario che stava per abbattersi anche sul proprio suolo. Oggi dopo oltre quattro mesi e mezzo di lutti e sofferenze il dramma per gli States continua ancora, con il triste primato di Paese col più alto numero di contagiati (superati i quattro milioni). E tuttavia the show must go on, lo spettacolo deve andare avanti, e anche il massimo campionato cestistico del mondo è pronto a riaprire i battenti nella notte tra il 30 e il 31 luglio: prima con la sfida tra Jazz e Pelicans e poi con l’atteso derby di Los Angeles tra Clippers e Lakers, le due franchigie che insieme ai Milwaukee Bucks sono anche le più accreditate per la vittoria finale.
La parola magica è “ bubble”, bolla, quella creata ad hoc nel complesso di Disney World in Florida: qui isolati dal mondo, a porte rigorosamente chiuse, si daranno battaglia i 22 club della Nba che cercano la qualificazione ai playoff. Presenti anche i tre italiani che giocano nel torneo dei sogni: Danilo Gallinari (Oklahoma City Thunder), Marco Belinelli (San Antonio Spurs) e Nicolò Melli (New Orleans Pelicans). Ci sarebbe da sorridere, pensando davvero a uno scenario da film, ma il fantastico mondo di Disney è la trovata della Lega americana per portare a termine la stagione a qualunque costo: l’imperativo è concludere il campionato entro il 12 ottobre, la data-limite. L’assenza di pubblico sugli spalti? Ecco una soluzione iper-tecnologica: una serie di maxischermi lunghi cinque metri attorno al campo con i tifosi in collegamento da casa che potranno interagire come se fossero all’arena. La Florida è uno Stato con un numero di contagiati da record, ma nella “bolla” i positivi all’ultimo tampone erano zero su 346 giocatori presenti all’interno del parco divertimenti. Quindi avanti tutta.
Certo, è lecito chiedersi quanto si possa parlare di basket “vero” e non di farsa, in questo surreale luna park senza spettatori, dopo mesi di stop e con defezioni sanitarie o familiari in ogni club. Senza contare che per chi torna in campo dopo il virus (e tra questi ci sono giocatori che fanno la differenza come Westbrook o Harden) sono sconosciuti gli effetti sulla capacità polmonare e la tenuta cardiaca. Ma sono discorsi oziosi per i contabili del campionato statunitense che hanno stimato un miliardo di dollari di perdite complessive con lo stop definitivo alla Nba 2020. E allora che saranno mai gli oltre 170 milioni di dollari per la “bolla” in Florida? A tanto ammontano le spese di soggiorno per le squadre in tre diversi resort, con sette campi da basket, assistenza medica (e test quotidiani) vitto e intrattenimento garantiti. Parliamo di sistemazioni lussuose ed esclusive eppure qualche giocatore ha avuto da ridire sulla qualità delle camere o del cibo. Non è tra questi Giannis Antetokounmpo, la stella dei Milwaukee Bucks, che non ha mai nascosto la sua dura infanzia in Grecia: i suoi genitori, immigrati nigeriani, ogni giorno cercavano di mettere in tavola qualcosa facendo i venditori ambulanti: «Nella situazione in cui sono ora - ha spiegato Giannis - posso solo dire che sono stato benedetto dal Signore. Il mio appartamento in Grecia - quando ero più giovane con i miei quattro fratelli - era molto più piccolo della suite che ho qui in hotel. Sono felice di essere tornato a giocare a basket, quindi non ho davvero nulla di cui lamentarmi». Il fuoriclasse dei Bucks è uno dei protagonisti più attesi insieme ovviamente a LeBron James, “the king”, deciso a ridare l’anello ai Lakers a dieci anni dall’ultimo trionfo. Ma occhio anche a Kawhi Leonard dei Clippers e Pascal Siakam, il trascinatore dei campioni in carica, i Toronto Raptors.
La novità è che moltissimi giocatori scenderanno in campo con una canotta speciale: uno slogan o un messaggio per aderire alla campagna anti-razzismo. Eppure c’è chi, pur condividendone le finalità, si è smarcato trovando stonata l’iniziativa di rinunciare addirittura al proprio nome sulla maglia. Come LeBron James o il suo compagno di squadra, Anthony Davis: «Ogni volta che scendo in campo rappresento la mia famiglia, per quello è giusto che ci sia scritto Davis sulla mia schiena. Toglierlo sarebbe come non continuare a fare riferimento alle persone che mi hanno aiutato ad arrivare fin qui. Ci sono tanti gesti che si possono fare per portare avanti battaglie sacrosante». La famiglia prima di tutto anche per i cestisti che diventeranno papà. Li chiamano già “ bubble babies” i figli dei giocatori che verranno alla luce nelle prossime settimane e “costringeranno” i loro papà a uscire fuori dalla bolla e a sorbirsi poi il rigido protocollo della quarantena. Ma un evento così vale più di qualsiasi canestro. Non ha dubbi Gordon Hayward dei Boston Celtics che aspetta il suo quarto figlio: «Io sarò accanto a mia moglie. La decisione è semplice: sono stato presente alla nascita di tutte le mie figlie, ci sono cose più importanti nella vita».
Tra chi invece smania per tornare in campo c’è sicuramente LeBron James: anche solo per lasciarsi alle spalle quest’anno orribile che prima del virus si era già portato via il suo amico, il leggendario Kobe Bryant e sua figlia: «Non passa un singolo giorno in cui non pensi a lui o a Gigi. Non passa giorno senza che i Lakers onorino la loro memoria e pensino a Vanessa e le ragazze. Sono parte di noi». Quanto ai momenti difficili della quarantena, LeBron pensa anche al risvolto positivo: «Sono rimasto chiuso in casa per ben quattro mesi assieme alla mia famiglia. Non credo mi sia mai capitato... Ho potuto passare tanti bei momenti assieme a mia moglie e ai miei figli. Ho avuto la possibilità di essere finalmente una figura presente nella mia famiglia. Mi sono divertito a giocare assieme ai miei figli». E sebbene non nasconda quanto gli sia mancata «la competizione quotidiana della Nba», più del pallone ha sentito la lontananza di una persona speciale: «Durante la quarantena ho avuto nostalgia per mia madre». C’è tanta voglia di voltar pagina, anche tra gli appassionati. Se la lontananza dai parquet in questi mesi difficili è stata mitigata solo dalle emozioni vintage di Michael Jordan nella serie tv The last dance, ai giganti di oggi è chiesto un pizzico di normalità e adrenalina vera con le loro prodezze. Per tornare ad alzare lo sguardo, come solo il basket - l’unico sport che tende al cielo direbbe Bill Russell - può fare.