Reportage. Nella baraccopoli di Nairobi a vedere Dante, il teatro che salva
«Ascoltate! Se accendono le stelle, vuol dire che qualcuno ne ha bisogno? Vuol dire che qualcuno vuole che esse siano? Vuol dire che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?». Urlava in forma di domanda retorica il bisogno insopprimibile e trascendente di una piccola luce il poeta russo Majakovskij. A gridare questi stessi versi alcuni giorni fa sono stati quasi duecento ragazzi dagli 8 ai 18 anni, tutti con la maglietta gialla tra i miasmi mefitici dei meandri di una delle baraccopoli più grandi dell’Africa, mentre calpestano rifiuti, mentre un tugurio prende fuoco e una vecchia locomotiva cerca di guadagnare metri su un binario sommerso di immondizie. Il corteo procedeva alternando con la tecnica della ripetizione corale un canto tradizionale in swahili a una lirica di Emily Dickinson, l’inno cristiano Amazing Gracealla poesia sublime della Divina Commedia che faceva da tessuto drammaturgico. E frotte di ragazzini senza maglietta gialla si aggregavano e rilanciavano anch’essi le parole che il corifeo declamava al megafono. Trascorreva così un’ora di stupore laddove regnava dispoticamente la rassegnazione, sessanta minuti di armoniae di incanto laddove l’abbrutimento e l’alienazione dilagavano.
È stata una piccola, meravigliosa presa di potere della bellezza che ha spodestato per un frammento della giornata la tirannia del degrado, una straordinaria visione paradisiaca nell’inferno di Kibera, lo “slum” alle porte di Nairobi in cui sopravvivono ammassati in baracche di lamiera due metri per tre settecentomila anime in una sorta di “malebolge” suburbane. Tra questi la maggioranza sono bambini, quei «piccoli sputi» per lo più ignorati e abbandonati che sguazzano nel putridume delle fogne a cielo aperto, che rovistano e giocano fra montagne di spazzatura, o che si stordiscono sniffando colla, o che diventano acerbi drug pusher, spacciatori per forza e per inerzia, che maneggiano armi, che spesso diventano vittime di poliziotti senza scrupoli o di reiterati abusi sessuali o di trafficanti di organi. E vivono nella “foresta”. È questo il significato di Kibera nell’antico idioma nubiano. È una «selva oscura», senz’acqua, senza fogne, senza corrente elettrica, senza niente. Ma col più alto tasso di HIV, di infezioni, di violenza, di mortalità. Lo chiamano per l’appunto l’inferno del Kenya ed è una vergogna per un Paese che rappresenta un’isola di stabilità del continente con una crescita del 5% del Pil negli ultimi 10 anni, ma che dall’altro lato si trascina questa piaga dal 1912 e che per ragioni di sfruttamento, corruzione e strumentalizzazione politica non riesce o non vuole debellare.
Ma che senso aveva in questo cuore di tenebra quel barlume di arte poetica? Chi ha avuto la folle e utopica idea di incuneare atti performativi in un contesto così allucinante e disumano provocando così un folgorante paradosso? In realtà quell’espressione teatrale apparentemente estemporanea era la «Parata finale», il climax di un percorso e un processo creativo durato un anno. A sostenere il progetto l’ong Avsi che dal 1986 in Kenya supporta quasi 250 mila tra adulti e ragazzi, costruito 28 scuole, ristrutturate 122, creato una rete di adozione a distanza per tremila bambini e che, sin dai tempi della collaborazione con il Teatro degli Incamminati fondato da Emanuele Banterle insieme a Giovanni Testori e Franco Branciaroli, crede fortemente nella bontà, efficacia e funzionalità dello strumento educativo teatrale. «Il teatro è fascino, gioia, aggregazione, antidoto all’abbandono scolastico, svolta assoluta nella capacità espressiva e relazionale, stimolo nello studio», insomma una panacea secondo il coro unanime di tutti i presidi delle scuole dell’Avsi, le uniche in cui i bambini vengono accolti, istruiti, amati e non picchiati come invece avviene di prassi nelle scuole pubbliche del Kenya.
Ma per realizzare l’impresa di far esondare l’arte di Dioniso dai recinti scenici degli istituti fin nei vicoli dello slum i volontari dell’Avsi decidono di vincere facile e chiamano in causa Marco Martinelli del Teatro delle Albe, la realtà ravennate d’eccellenza che da 30 anni in tutto il mondo crea eventi artistici con la filosofia della “Non-scuola”, ovvero un processo pedagogico - maieutico che estrae e valorizza i talenti insiti nei giovani. Martinelli, coadiuvato da Laura Redaelli, decide così di puntare davvero in alto, al Cielo sopra Kibera. Questo il titolo dell’operazione che fa calare la nostra Divina Commedia sulla realtà dei ragazzi della baraccopoli. L’inferno da metaforico e poetico diviene concreto e reale perché coniugato con la vita drammatica del loro quotidiano, la presa di coscienza delle loro oscurità apre la strada per uscire «a riveder le stelle». «Dante è ognuno di noi – chiarisce subito il regista delle Albe – è perso nella selva oscura ma con una fame di luce che ci attraversa. La Divina Commedia è un archetipo narrativo universale, è un classico che rivive sulla pelle e nel sangue di questi ragazzi oggi, qui a Kibera».
Martinelli quindi prima di organizzare la parata nella bidonville ha costruito un vero spettacolo con quasi 200 studenti di quattro scuole del territorio: «Abbiamo chiesto che cosa era per loro l’inferno. “Siamo in balia dei lupi”, hanno confessato e ci hanno esternato lo sfruttamento di cui spesso sono vittime, dalla droga al commercio sessuale, ad altre situazioni inimmaginabili anche per Lucifero. Qui si supera Dante in visioni di malvagità». La performance corale è un flusso di evocazioni poetiche, canore e coreografiche innestate negli accadimenti tremendi della loro quotidianità. I simbolismi, come ad esempio la presenza delle fiere, sono ridotti all’essenziale, per lo più invece si tratta di un caleidoscopio di situazioni realistiche. I poliziotti spavaldi e corrotti, i politici locali millantatori di iperboliche promesse, i violenti accecati dalla loro stessa rabbia, i bambini rapiti, violentati e abbandonati per strada, balli, acrobazie, tutto è stato frutto di una condivisione vissuta in mesi di laboratori e improvvisazioni teatrali. Scevro da retorica, schietto, diretto e a tratti persino provocatorio, comunque tutto dedotto dal loro crudele mondo e dai loro urgenti bisogni: «tutto ciò che vogliamo è una famiglia felice» chiosano cantando in coro senza patetismo.
Si concede Martinelli solo nel finale un’invenzione prettamente lirica e ad effetto quando la piccola Faith si cuce addosso alcuni versi bellissimi di Emily Dickinson: «Che cosa è il Paradiso?... lo sanno lì che sto per andarci anche io e che vengo da Kibera? …E rideranno di me?». La reazione non è di scherno ma di pura commozione, la stessa che suscita il grido e anelito di speranza dei ragazzi in occasione della parata finale quando fanno proprie le parole di Majakovskij: «Direzione? Infinito!». È questa la legittima aspirazione dei ragazzi di Kibera. Impossibile? Forse no, se c’è un teatro che salva e l’amore cristiano di chi non pretende di cambiare il mondo ma, parafrasando ancora la Dickinson, di «impedire a un cuore di spezzarsi per non vivere invano».