Agorà

Stoccolma. Oggi Nobel per la Pace alla yazida Murad. E la sua odissea diventa un film

Alessandra De Luca lunedì 10 dicembre 2018

Nadia Murat nel documentario «Sulle sue spalle», nelle sale fino al 12 dicembre, sulla sua drammatica vicenda

Aveva solo 23 anni Nadia Murad quando testimoniò davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Era il 16 dicembre 2015 e a quella ragazza ogni tanto la voce tremava mentre raccontava cosa le era accaduto la notte del 3 agosto 2014, quando il Daesh attaccò il villaggio di Kocho, la sua città natale, nel Sinjar, e sterminò la sua famiglia insieme a gran parte della popolazione di fede Yazidi, minoranza religiosa storicamente perseguitata che vive sulle montagne tra l’Iraq e la Siria e che il Califfato considera adoratrice del diavolo. Lei venne catturata, subì ogni genere di violenza e solo per un caso fortuito (la distrazione di un carceriere) riuscì a fuggire dalla schiavitù sessuale alla quale l’avevano condannata i suoi aguzzini a Mosul e mettersi in salvo trovando rifugio presso una famiglia della zona che l’aiutò a raggiungere il campo profughi di Duhok, nel nord dell’Iraq, e da lì Stoccarda, in Germania.

Le sue parole commossero profondamente i delegati di tutto il mondo che l’ascoltarono, piansero con lei e apprezzarono anche la sua abilità oratoria. Un’abilità che ha fatto di Nadia un’attivista e il volto di un popolo dimenticato in cerca di giustizia. Giorno dopo giorno, la giovane combatte infatti una battaglia difficile e dolorosa, quella per la memoria. Dai campi di profughi in Grecia ai raduni di sopravvissuti a Berlino, dal Parlamento canadese alla sede della Nazioni Unite, questa ragazza giovanissima e determinata continua a raccontare la sua storia a giornalisti, politici e diplomatici trovando il coraggio di ripercorrere ogni volta quei momenti terribili e strazianti, riaprendo ferite recenti e dolorosissime. Perché quanto è accaduto e sta tuttora accadendo non passi sotto silenzio. Perché la sua voce diventi il grido di speranza di un intero popolo. Perché il genocidio degli Yazidi sia fermato e i comandanti del Daesh vengano portati davanti a un tribunale. Nadia voleva aprire un salone di bellezza, sposarsi e avere dei figli, niente di più, niente di meno. E invece questa ragazza, una volta come tante, si è ritrovata catapultata sul palcoscenico del mondo, impegnata a difendere i diritti della sua gente.

Ad attenderla lunedì, 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, è un riconoscimento importantissimo per la sua causa: Nadia, già Ambasciatrice di Buona Volontà delle Nazioni Unite, è infatti a Stoccolma per ricevere lunedì, dall’Accademia Svedese, il premio Nobel per la pace insieme al ginecologo Denis Mukwege, che ha trascorso gran parte della sua vita aiutando le vittime delle violenze sessuali nella Repubblica Democratica del Congo.

Il 3 maggio Nadia 2017 aveva poi incontrato papa Francesco al quale aveva confidato la sua triste odissea. A raccontarci chi è Nadia Murad è ora il bel documentario Sulle sue spalle diretto da Alexandria Bombach e nelle sale fino al 12 dicembre distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Sky Arte.

La regista segue la giovane attivista nella sua vita quotidiana, per mostrare la sua forza d’animo, lo straordinario coraggio, la sua capacità di articolare discorsi emotivamente estenuanti davanti a capi di governo e alle telecamere dei media, spesso morbosamente insistenti sulle violenze sessuali subite. Nadia risponde calma, senza vergogna, ricacciando indietro le lacrime. Ogni tanto l’emozione le spezza la voce, ogni tanto è così stanca che vorrebbe mollare tutto e tornare a una vita normale, lontana dai riflettori. Ma c’è un popolo intero che conta su di lei e non può tornare indietro. Accanto a lei ci sono Murad Ismael, cofondatore e direttore di Yazda, organizzazione non governativa a sostegno degli Yazidi, e l’avvocato Amal Alamuddin Cloooney, che ha accettato di rappresentarla nell’azione legale contro i comandanti di Daesh.

«Con questo film – dice la Bombach – volevo esplorare la distanza tra la vittima e la sua voce, la fragilità delle emozioni umane che insieme provoca e ostacola un cambiamento positivo, l’incredibile caparbietà e resilienza di una donna disposta a sacrificare se stessa per giocare al gioco dei media che è diventato il sostegno internazionale. Ma Nadia comunica il peso della sua esperienza con il suo sguardo. Al termine di ogni incontro, tra abiti eleganti e un turbine di strette di mano, un teleobiettivo la cattura mentre affonda nuovamente in se stessa per riprendersi, ed è visibilmente esausta. Ho seguito Nadia e le persone con cui lavora più a stretto contatto durante l’estate del 2016, la sua vita è in costante movimento. Ho cominciato a vedere che stava perdendo la fiducia nei media a cui si era affidata per raccontare la sua storia perché sembrava che l’incessante raffica di domande da parte dei giornalisti diventasse più spesso “Come ti hanno stuprata?” invece di “Cosa può essere fatto per gli Yazidi?”. Il ruolo della vittima, del sopravvissuto, non è da prendere alla leggera. Nadia stessa sa che le sue parole hanno spinto alcune persone all’azione. La mia speranza è che questo accesso intimo e privilegiato alla sua vita riveli le reali fatiche che una comunità senza voce è obbligata ad affrontare per spingere il mondo ad aiutarla».